Alla fine del 1991 fu varata una vera e propria strategia mafiosa di attacco allo Stato, che dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del cosidetto . “maxi processo”, avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza passa ad esaminare gli “antefatti” della vicenda che costituisce oggetto specifico dell’imputazione [...], a partire dal varo della strategia di contrapposizione frontale allo Stato decisa dai Corleonesi e dal suo primo atto realizzativo, l’omicidio Lima; con i conseguenti effetti intimidatori su quella parte della classe politica che aveva traditi i patti o aveva comunque deluso le aspettative di Cosa Nostra.
La Corte reputa provata con certezza anzitutto che alla fine del 1991 fu varata una vera e propria strategia mafiosa di attacco allo Stato, che dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del c.d. “maxi processo” (interrotta soltanto, nell’agosto del 1991, dall’omicidio Scopelliti, commesso, però, in Calabria al fine di evitare l’immediato diretto collegamento con “cosa nostra”), avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni delle Stato: e, più specificamente, contro rappresentanti di queste che o avevano tradito aspettative e promesse ovvero costituivano le punte di diamante dell’azione di contrasto a Cosa nostra.
E più esattamente, tale strategia fu varata a seguito di incontri e deliberazioni dei vertici dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra sfociati in almeno due riunioni dei suoi più alti consessi deliberativi, alla fine del 1991.
In particolare, si tennero una riunione della “commissione regionale” ed una riunione della “commissione provinciale di Palermo” di “cosa nostra”, entrambe convocate da Salvatore Rima, all’epoca, di fatto, capo assoluto ed incontrastato dell’organizzazione mafiosa.
Entrambe le riunioni, servirono a fare recepire e ratificare a quegli organismi collegiali la sua volontà di reagire. sferrando un violento attacco allo Stato e ponendo in essere punizioni esemplari ai danni di politici e uomini delle istituzioni che non avevano fatto quanto da loro l’organizzazione si attendeva, una volta acquisita la consapevolezza che il maxi processo, nonostante le rassicurazioni ricevute a più livelli, anche istituzionali o politici, da quanti avrebbero dovuto adoperarsi per favorirlo, non avrebbe avuto quell’esito nel quale tanti affiliati avevano riposto le proprie speranze.
Le dichiarazioni dei pentiti
Delle predette riunioni hanno riferito alcuni collaboratori di giustizia di grande spessore e comprovata affidabilità per i tanti riscontri e le sentenze che ne attestano il percorso criminale, prima e poi quello collaborativo. E tra loro, anzitutto due dei soggetti che per il ruolo apicale ricoperto furono testimoni e partecipi delle deliberazioni che accompagnarono il varo di quella strategia.
La sentenza passa quindi in rassegna le dichiarazioni rese sul tema da Antonino Giuffré, a dire del quale a quella riunione della Commissione provinciale del dicembre 1991 tenutasi nella casa di Girolamo Guddo, e nella quale si deliberò (o più esattamente, tutti i capi mandamento riuniti accolsero la decisione comunicata da Riina con assoluto silenzio) di uccidere, da un lato, Lima ed altri politici («...Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico...»)
che avevano tradito le attese di “cosa nostra” e, dall’altro, alcuni magistrati che storicamente venivano considerati nemici di “cosa nostra”, non partecipò Provenzano, pur non essendovi alcun dubbio, per i presenti, che quest’ultimo, come di consueto, avesse già precedentemente condiviso l’iniziativa con Riina; e da Giovanni Brusca. Quest’ultimo ha rimarcato l’insoddisfazione che montava in Salvatore Rima per l’andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l’on. Lima sul quale il Rima aveva fatto affidamento per “aggiustare” il maxi processo.
La questione (del maxi processo) era stata oggetto di più riunioni della “commissione provinciale” tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell’evoluzione della vicenda sino a quell’intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell’esito infausto per l’associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato.
Anche Brusca ha riferito della riunione tenutasi (ma non a casa di Guddo per quello che è il suo ricordo, con il beneficio però del dubbio dato il tempo trascorso) in prossimità delle festività natalizie cui parteciparono quasi tutti i capi “mandamento” tra i quali anche Giuffré e nel corso della quale prese la parola Rima, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l’intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di “cosa nostra” ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito “cosa nostra”, tra i quali Lima e, forse, Mannino.
Nessuno dei due ebbe sentore, nel corso di quella riunione, dell’intenzione di Riina di accompagnare la commissione dei delitti progettati da rivendicazioni a nome della “Falange Aniiata”, come invece hanno riferito i collaboratori di giustizia che hanno parlato dell’altra riunione quella della Commissione regionale di Cosa Nostra tenutasi ad Enna tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92.
E tra loro, anzitutto, Filippo Malvagna (il cui racconto, a parere della Corte, “è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall'assenza di elementi idonei ad inficiare l'“attendibilità intrinseca del dichiarante”), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della “provincia” di Catania.
In quella riunione, secondo quanto poi raccontato al Malvagna, Riina avrebbe pronunciato una frase emblematica frase «qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace». E anche in quella riunione di Enna, ancora secondo quanto appreso e, quindi, riferito da Malvagna, Salvatore Riia si era lamentato delle promesse di politici non mantenute ed aveva prospettato che a quel punto occorreva muoversi “tipo libanesi, tipo i colombiani’ e cioè con una strategia di attacco frontale verso lo Stato e con azioni idonee a confondere la matrice mafiosa o terroristica dell’atto criminale. E fu proprio in tale contesto, Riina aveva invitato a rivendicare le azioni che sarebbero state compiute con la sigla Falange Armata, sino ad allora a tutti loro sconosciuta.
(Sul punto la sentenza annota che effettivamente tutti i principali fatti delittuosi che da li in poi sarebbero stati commessi da “cosa nostra” nel biennio 1992-93, ad iniziare dall’omicidio Lima, furono rivendicati con la predetta sigla).
Ma sono passate in rassegna anche le dichiarazioni di Avola Maurizio che ha fatto riferimento, oltre ad una riunione avente ad oggetto la strategia mafiosa tenutasi a Messina cui egli, senza parteciparvi, aveva accompagnato Marcello D’Agata, “consigliere” della “famiglia” catanese (riunione per la quale, comunque, non vi sono riscontri di sorta), anche ad una riunione con Riina tenutasi ad Enna di cui egli fu informato nei primi mesi del 1992 da Enzo Galea.
Non vi sono elementi certi che consentano di identificare la riunione di cui ha parlato Avola con quella della Commissione regionale riferita da Malvagna. Tuttavia, una conferma probante è venuta da un altro collaboratore di giustizia di comprovata attendibilità, Ciro Vara, il quale ha riferito di avere incontrato Piddu Madonia, “capo” della “provincia” mafiosa di Caltanissetta, il 23 dicembre 1991 e che il predetto in quell’occasione gli disse che, contrariamente a quanto di solito faceva nel periodo delle festività natalizie, non poteva allontanarsi dalla Sicilia perché a breve vi sarebbe
stata una riunione della “commissione regionale” di “cosa nostra” in vista della sentenza che da li a poco avrebbe pronunziato la Cassazione sul maxi processo.
Da altri esponenti mafiosi, poi, il Vara ebbe successivamente conferma che quella riunione si era effettivamente tenuta e che, nella stessa, erano state decise le stragi da compiersi da lì a poco.
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