La causa è iniziata nel 2018 ed è stata intentata da sette organizzazioni ambientaliste tra cui Greenpeace. Gli attivisti hanno accusato il colosso energetico di violare i diritti umani con i suoi investimenti nei combustibili fossili. Giannì (Greenpeace Italia) «Speriamo che quanto accaduto oggi sia un monito anche per le aziende italiane come Eni»
Una sentenza storica da parte del tribunale dell’Aja in Olanda ha imposto alla compagnia energetica Shell di ridurre del 45 per cento le sue emissioni di CO2 entro il 2030.
Il contenzioso
La causa è stata intentata nel 2018 da sette organizzazioni ambientaliste, tra cui anche Greenpeace e Amici della Terra, ed è stata denominata “Il popolo contro Shell”. L’iniziativa è stata lanciata con l’appoggio di 1.700 cittadini olandesi secondo i quali la compagnia energetica Shell costituisce una minaccia per i diritti umani con i suoi investimenti nei combustibili fossili e il colosso, quindi, avrebbe dovuto adeguarsi alle direttive dell’accordo sul clima di Parigi. Shell si è difesa, invece, sostenendo la tesi che spetta ai governi dover combattere il cambiamento climatico e rispettare la legge.
I giudici hanno affermato che la compagnia petrolifera al momento non sta violando il suo obbligo di ridurre le emissioni, dato che sta perseguendo un percorso che ha come obiettivo la riduzione del biossido di carbonio del 20 per cento entro il 2030 e del 45 per cento entro il 2035, rispetto ai livelli del 2019. Tuttavia, la corte ha aggiunto che la politica «non è concreta, ha molti caveat e si basa sul monitoraggio degli sviluppi sociali piuttosto che sulla responsabilità dell’azienda stessa di raggiungere una riduzione di CO2».
La sentenza ora può diventare un precedente e spingere altri tribunali nazionali che stanno giudicando su contenziosi simili ad adottare sentenze che vadano nella stessa direzione.
La decisione dell’Aja segue una precedente sentenza di fine gennaio 2021, quando un tribunale olandese ha ordinato a Shell di pagare i danni ambientali provocati ai contadini nigeriani a causa delle sue attività di estrazione sul delta del Niger.
Il commento di Greenpeace
«Questa sentenza è una vittoria storica per il clima e per tutti coloro che affrontano le conseguenze della crisi climatica», ha detto Andy Palmen, direttore ad interim di Greenpeace Netherlands. «Shell non può continuare a violare i diritti umani e mettere il profitto al di sopra delle persone e del Pianeta. Quello di oggi è un chiaro segnale per l'industria dei combustibili fossili. Il carbone, il petrolio e il gas devono rimanere dove sono, sottoterra. Cittadine e cittadini di tutto il mondo chiedono giustizia sul clima». Per loro è chiaro: «La Corte ha confermato che l'industria dei combustibili fossili non può continuare a emettere gas serra e contribuire ad aggravare l’emergenza climatica. Possiamo ritenere le multinazionali di tutto il mondo responsabili del riscaldamento globale», ha concluso.
Greenpeace Italia adesso chiede che Eni si adegui: «La scorsa settimana l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha dichiarato ufficialmente in un suo studio che non si devono più cercare e bruciare gas e petrolio se vogliamo contrastare la crisi climatica», ha ricordato Alessandro Giannì, Direttore delle Campagne di Greenpeace Italia». La situazione di Shell «ricorda quella dell’italiana Eni, azienda il cui business principale è proprio il gas, nonché uno dei più grandi emettitori a livello mondiale. Ebbene il Cane a sei zampe ha recentemente ha presentato un piano di decarbonizzazione che prevede di abbattere di appena il 25 per cento le proprie emissioni entro il 2030». Per questo conclude: «Speriamo che quanto accaduto oggi sia un monito anche per le aziende italiane come Eni: occorre che rivedano presto i propri obiettivi allineandosi alle richieste degli scienziati», conclude Giannì.
Leggi anche:
- «Danni ambientali», l’Olanda obbliga Shell a risarcire i contadini nigeriani
-
Non ci saranno mai abbastanza alberi: bisogna abbattere la CO2
© Riproduzione riservata