Per gli esponenti mafiosi detenuti all’istituto penitenziario dell’Ucciardone, era assolutamente pacifico che l’omicidio di Mario Francese fosse stato voluto e deciso dalla "Commissione". Il delitto si inseriva in una violenta strategia decisa da Salvatore Riina, che intendeva produrre un pesante effetto intimidatorio nei confronti degli organi di informazione
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La sicura e precisa ricostruzione della vicenda compiuta da Francesco Di Carlo, secondo cui la decisione di uccidere Mario Francese fu adottata dalla "Commissione" provinciale di Palermo di "Cosa Nostra", trova univoco riscontro in una serie di specifiche circostanze riferite dagli altri collaboranti.
Al riguardo, va anzitutto rilevato che:
- per gli esponenti mafiosi detenuti presso l’istituto penitenziario dell’Ucciardone, era assolutamente pacifico che l’omicidio di Mario Francese (considerato da taluno anche come un monito rivolto agli altri giornalisti) fosse stato voluto e deciso dalla "Commissione" (come ha sottolineato il Mutolo);
- in quel periodo era sicuramente operante la regola fondamentale di "Cosa Nostra", che stabiliva che gli omicidi di magistrati, uomini politici, soggetti appartenenti alle forze dell’ordine, avvocati e giornalisti dovessero essere deliberati dalla "Commissione" (la quale si riuniva regolarmente e frequentemente), potendo provocare conseguenze negative per l’organizzazione, tenuto conto della rilevanza delle vittime e delle prevedibili reazioni dello Stato (cfr. le dichiarazioni del Mutolo, del Brusca, del Marchese, del Siino, del Cucuzza);
- la suddetta regola subiva eccezioni – come ha chiarito il Marchese – soltanto quando con un determinato omicidio un gruppo di Cosa Nostra voleva attuare una propria strategia a danno di un altro gruppo o del singolo capo mandamento del territorio in cui l’omicidio veniva commesso; ma le eccezioni verificatesi erano riconoscibili con chiarezza dalle conseguenze puntualmente riscontrabili nel periodo successivo, e consistenti nella reazione dei capi-mandamento non informati ovvero nell’esautoramento del capo-mandamento nel cui territorio era avvenuto l’omicidio;
- nessuna conseguenza del genere fece seguito all’omicidio di Mario Francese; anzi, i maggiori esponenti dei diversi gruppi in cui si articolava "Cosa Nostra" manifestarono apertamente la loro soddisfazione per l’impresa omicidiaria, e Francesco Madonia (capo del "mandamento" e della "famiglia" nel cui territorio venne ucciso il giornalista) mantenne e rafforzò la sua posizione di vertice all’interno dell’organizzazione;
- le ipotesi in cui erano stati commessi “omicidi eccellenti” senza osservare la regola della preventiva deliberazione della "Commissione" divennero, del resto, perfettamente conosciute dagli esponenti di "Cosa Nostra", proprio per i successivi sviluppi verificatisi; tra tali ipotesi (comprendenti, segnatamente, l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo e quello del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, maturati in contesti assolutamente peculiari) non rientrava certamente l’omicidio di Mario Francese.
Dalle dichiarazioni dei suddetti collaboratori di giustizia e dai restanti elementi di prova raccolti emerge con chiarezza che sull’omicidio di Mario Francese si realizzò una perfetta convergenza degli interessi dei diversi schieramenti che in quel periodo stavano delineandosi all’interno di "Cosa Nostra".
All’omicidio del giornalista erano interessati, in primo luogo, i “corleonesi”, a causa del coraggioso lavoro di approfondimento e di informazione da lui svolto su due vicende che assumevano una rilevantissima importanza per tale gruppo mafioso: i lavori di costruzione della diga Garcia e l’omicidio del colonnello Russo.
Sulla costruzione della diga Garcia gravitavano enormi interessi economici dello schieramento mafioso facente capo a Salvatore Riina, che era riuscito a sottoporre al proprio volere le decisioni di una impresa di rilievo nazionale, inducendo i dirigenti della società Lodigiani a cooperare all’attuazione di un preciso piano criminoso, volto ad assicurare ai “corleonesi” il totale controllo di ogni settore produttivo legato alla diga Garcia, attraverso la assegnazione di subappalti e forniture agli imprenditori legati da uno stretto rapporto fiduciario al medesimo gruppo mafioso.
L’omicidio del colonnello Russo era stato deliberato dai rappresentanti della "famiglia" di Corleone, ed eseguito da Leoluca Bagarella, proprio a causa degli ostacoli che l’ufficiale, con la sua attività, stava frapponendo alla realizzazione del suddetto piano criminoso.
I “corleonesi” sempre in prima pagina
Mario Francese, nelle sue inchieste giornalistiche, sin dal 1977 aveva evidenziato la riconducibilità allo schieramento mafioso capeggiato dai “corleonesi” degli interessi economici inerenti alle forniture ed ai subappalti assegnati dalla società Lodigiani, della lunga catena di omicidi connessa ai lavori di costruzione della diga, e dell’assassinio del colonnello Russo (di cui aveva esattamente individuato il movente), delineando con assoluta precisione e rendendo noto all’opinione pubblica uno scenario criminale che - dopo un lungo periodo contrassegnato dalla mancanza di significativi sviluppi giudiziari sul rapporto tra mafia ed economia nel settore dei grandi appalti pubblici e dallo sviamento delle indagini sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri - soltanto negli anni ’90 avrebbe formato oggetto di accertamento in sede giurisdizionale.
Inoltre, l’attività giornalistica di Mario Francese aveva costantemente posto in risalto la estrema pericolosità criminale dei più potenti boss mafiosi corleonesi (tra cui Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella), seguendone con grande attenzione sin dagli anni ’60 le vicende giudiziarie. Già nel 1974, aveva fatto conoscere all’opinione pubblica l’attività prestata da Giuseppe Mandatari in favore di società costituite da esponenti di "Cosa Nostra", nonché i suoi rapporti con Salvatore Riina, con Leoluca Bagarella e con don Agostino Coppola. Dal 1976 in poi, aveva svolto una puntuale attività di informazione in ordine al coinvolgimento di don Agostino Coppola (il quale aveva celebrato il matrimonio tra Salvatore Riina e Antonietta Bagarella) in alcune delle più complesse vicende criminali degli anni ’70.
La genuinità e la attendibilità del patrimonio conoscitivo dei collaboranti sono comprovate senza alcuna possibilità di dubbio dalla perfetta coerenza logica, dalla precisa correlazione con il contenuto degli scritti di Mario Francese, e dalla esattezza dei riferimenti cronologici, che caratterizzano le dichiarazioni da essi rese sul punto, nonostante la lontananza del tempo degli eventi narrati.
In particolare:
- il Mutolo ha specificato che ai mafiosi era sembrato che Mario Francese oltrepassasse ogni limite consentito quando aveva attaccato pubblicamente padre Agostino Coppola (legato da rapporti fraterni con Salvatore Riina) per il suo coinvolgimento nel sequestro di Rossi di Montelera;
- dalle informazioni fornite da Antonino Salvo al Pennino si desume che l’omicidio di Mario Francese era stato voluto dai “corleonesi” a causa dell’attività del giornalista, che delineava con chiarezza i loro interessi nella diga Garcia;
- il Di Carlo, sin dalle sue prime dichiarazioni, ha riferito che sentì parlare di Mario Francese, nella prospettiva della sua futura uccisione, intorno al 1977, da Salvatore Riina, Francesco Madonia e Giuseppe Giacomo Gambino;
- lo stesso Di Carlo ha affermato che la decisione di uccidere Mario Francese iniziò a maturare perché i “corleonesi”, ed in particolare Salvatore Riina, non sopportavano l’approfondito lavoro giornalistico da lui svolto, ed espressosi nella pubblicazione di articoli su Luciano Liggio, Bernardo Provenzano, lo stesso Riina, e il commercialista Giuseppe Mandatari;
- il Di Carlo ha aggiunto che sentì parlare per la prima volta di Mario Francese da Salvatore Riina intorno al 1975;
- il Di Carlo ha precisato che i “corleonesi”, i quali non dimenticavano gli attacchi ricevuti, diedero ulteriore impulso al progetto di eliminare Mario Francese nel periodo (antecedente alla costituzione del "mandamento" di Resuttana, avvenuta nei primi mesi del 1978) in cui il giornalista stava avvicinandosi alla verità negli articoli scritti sull’assassinio del colonnello Russo;
- lo stesso collaborante ha chiarito che la decisione di sopprimere Mario Francese fu adottata inizialmente da Salvatore Riina con il gruppo dei suoi alleati (i “corleonesi”, tra cui rientravano Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Giuseppe Giacomo Gambino), e che quando Salvatore Riina comprese di disporre della maggioranza dei componenti della "Commissione", chiese a tale organismo di deliberare l’omicidio;
- il Brusca ha dichiarato che il Bagarella gli lasciò comprendere chiaramente che il delitto era da addebitare alla "famiglia" di Corleone, ha aggiunto che tra gli esponenti di "Cosa Nostra", i più interessati all’eliminazione di Mario Francese erano i corleonesi, e ha spiegato che il movente del delitto era ricollegabile all’attività lavorativa di Mario Francese, il quale aveva arrecato fastidio a "Cosa Nostra" con i suoi continui attacchi all’organizzazione, in particolare con i suoi articoli sui lavori per la realizzazione della diga Garcia e sull’omicidio del colonnello Russo;
- Giuseppe Ferro ha affermato che Armando Bonanno e Giuseppe Giacomo Gambino, entrambi esponenti della "famiglia" di San Lorenzo, nel 1977, conversando con lui nel corso della comune detenzione presso l’istituto penitenziario di Trapani, esprimessero giudizi negativi con riguardo alla vicinanza manifestata da Mario Francese rispetto all’azione della magistratura.
Si è già avuto modo di rilevare come Mario Francese avesse esaminato con grande competenza tutte le vicende mafiose, giungendo a ricostruire un completo organigramma di "Cosa Nostra".
Egli, nella sua approfondita inchiesta giornalistica sulla diga Garcia, aveva evidenziato il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di una enorme accumulazione di ricchezza connessa ai lavori di costruzione della diga, gli elevatissimi vantaggi economici conseguiti dal boss di Monreale, Giuseppe Garda, mediante la percezione dell’indennità di esproprio per i terreni da lui acquistati a Roccamena, il compimento di analoghe manovre speculative da parte dei Salvo, la rottura di consolidati equilibri mafiosi, i conflitti interni a "Cosa Nostra", i rapporti del gruppo Salvo-Corleo con i direttori tecnici delle imprese Lodigiani, Saiseb e Garboli, operanti nella valle del Belice, la possibile connessione tra l’omicidio del colonnello Russo e l’attività da lui svolta in favore dell’impresa Saiseb, e l’evoluzione della mafia verso una dimensione imprenditoriale.
Mario Francese aveva anche esposto una precisa interpretazione della catena di delitti collegata alla costruzione della strada a scorrimento veloce tra Palermo e Sciacca, ed aveva messo in luce l’intervento esplicato dal boss di San Cipirello Salvatore Celestre al fine di ottenere per i suoi nipoti il subappalto di un tratto della medesima strada.
In Commissione erano tutti daccordo
Lo schieramento mafioso facente capo a Stefano Bontate era ben consapevole del pericolo che l’attività giornalistica di Mario Francese rappresentava non solo per i “corleonesi”, ma per tutta "Cosa Nostra", fortemente proiettata, in quel periodo, verso la valorizzazione della propria dimensione imprenditoriale, ed interessata a sviluppare un saldo rapporto di cointeressenza con importanti settori del mondo politico ed economico sul piano della gestione degli appalti pubblici.
L’eliminazione di Mario Francese rispondeva, dunque, ad un preciso interesse comune sia ai “corleonesi”, sia al gruppo mafioso contrapposto.
Si spiegano così le reazioni manifestate da Stefano Bontate, il quale – come ha riferito Angelo Siino – non si mostrò affatto preoccupato per le conseguenze dell’omicidio di Mario Francese, provò persino a screditare la figura del cronista (seguendo un modus operandi tipico di "Cosa Nostra", che era solita tentare di diffamare in tutti i modi le sue vittime), apparve perfettamente a conoscenza dell’episodio delittuoso, e, nell’indicarne alcune delle causali, specificò che l’ucciso si interessava di vicende delle quali non avrebbe dovuto interessarsi, come quelle relative alla diga Garcia e all’omicidio del colonnello Russo. Stefano Bontate aggiunse che Mario Francese “aveva rotto le scatole” a parecchie persone, e fece riferimento all’articolo che riguardava lo stesso Siino.
Anche Antonino Salvo (il quale, prima della "guerra di mafia", era strettamente legato al gruppo mafioso formato da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo) apparve, nel corso delle sue conversazioni con il Pennino, perfettamente consapevole delle ragioni che avevano determinato l’omicidio di Mario Francese.
Il negativo atteggiamento assunto da tutti gli esponenti dell’organizzazione mafiosa nei confronti di Mario Francese si desume anche dalle dichiarazioni di Salvatore Contorno, il quale ha esplicitato che la sua attività giornalistica era «un disturbo per "Cosa Nostra», ha aggiunto: “non ci stava bene a nessuno questo elemento”, ed ha chiarito di aver sentito parlare dell’argomento da Stefano Bontate e da Girolamo Teresi.
Il Cucuzza ha evidenziato che anche Rosario Riccobono esprimesse giudizi negativi su Mario Francese per il suo impegno contro la mafia.
E’ assai significativa la circostanza – riferita dal Mutolo – che già da almeno due anni prima dell’omicidio, tutti gli "uomini d'onore" effettuassero commenti fortemente negativi (talvolta, con l’uso di espressioni che riflettevano una violenta avversione) sull’attività professionale svolta da Mario Francese, da essi considerata come un costante attacco a "Cosa Nostra" ed ai suoi componenti.
L’unanime adesione manifestatasi, all’interno di "Cosa Nostra", in ordine all’impresa omicidiaria, è confermata dal fatto - menzionato dal Mutolo – che, dopo l’uccisione di Mario Francese, gli "uomini d'onore" detenuti avessero esternato la loro contentezza.
Il comune interesse e la unanime adesione manifestatisi tra i massimi esponenti delle diverse componenti di "Cosa Nostra" in ordine all’eliminazione di Mario Francese consentono di ritenere che, quando Salvatore Riina, sicuro di disporre del consenso della maggioranza dei componenti della "Commissione", chiese a tale organismo di deliberare l’omicidio di Mario Francese, circa un mese prima del delitto (secondo la ricostruzione dell’accaduto esposta dal Di Carlo), tale proposta sia stata approvata senza difficoltà.
La riconducibilità dell’omicidio di Mario Francese ad una preventiva deliberazione della "Commissione" trova ulteriore conferma nella circostanza che nessuno dei componenti dell’organismo di vertice abbia lamentato, nel caso concreto, la inosservanza delle regole dell’organizzazione, e nella assoluta assenza di reazioni negative a carico degli esecutori del delitto e del capo della "famiglia" nel cui territorio esso si verificò.
Ben diverso fu, invece, l’atteggiamento tenuto dai massimi esponenti dei due schieramenti delineatisi all’interno di "Cosa Nostra", dopo la realizzazione di altri episodi omicidiari – come l’uccisione del colonnello Giuseppe Russo, del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, del boss Giuseppe Di Cristina – che avevano rappresentato una violazione delle regole dell’illecito sodalizio. Si è già avuto modo di osservare come queste vicende avessero provocato una forte conflittualità tra le contrapposte fazioni; una situazione, questa, che non si riscontrò affatto in occasione dell’omicidio di Mario Francese, che fu oggetto di un consenso generale all’interno dell’associazione mafiosa.
Nelle intenzioni dei “corleonesi”, l’omicidio di Mario Francese era volto non soltanto a fare tacere per sempre un cronista che, per il suo coraggioso impegno professionale e per il suo eccezionale patrimonio conoscitivo, costituiva una sicura fonte di pericolo per "Cosa Nostra", ma anche a dissuadere gli altri giornalisti dal lanciare attacchi contro l’organizzazione mafiosa (come ha riferito il Mutolo, uno dei commenti che circolavano tra gli "uomini d'onore" detenuti fu: «Così gli altri imparano»).
La strategia di Totò Riina
Il delitto si inseriva, infatti, in una violenta strategia decisa da Salvatore Riina, il quale intendeva produrre un pesante effetto intimidatorio al fine di condizionare incisivamente l’atteggiamento degli organi di informazione sui temi che riguardavano "Cosa Nostra".
La strategia mafiosa culminata nell’omicidio di Mario Francese si era sviluppata, nei mesi precedenti, attraverso gli attentati incendiari commessi in danno dell’autovettura di Lino Rizzi e della villa di Lucio Galluzzo. In ordine a questo secondo episodio, le dichiarazioni del Pennino e del Di Carlo concordano nell’attribuirne la deliberazione a Salvatore Riina.
La decisione di Salvatore Riina di porre in essere “una serie di avvertimenti” nei confronti del "Giornale di Sicilia" (secondo quanto il Pennino apprese da Antonino Salvo), lanciando così un vero e proprio attacco contro la libertà di informazione, trova la propria logica spiegazione nella linea di rigore sui temi della lotta alla mafia che fu seguita dal quotidiano sotto la direzione di Lino Rizzi, come ha evidenziato il giornalista Francesco Nicastro; non a caso, fu proprio Lino Rizzi il primo ad essere colpito dalle azioni intimidatorie programmate dal Riina.
Le conclusioni che è possibile formulare, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in merito alla riconducibilità dell’omicidio di Mario Francese ad una preventiva decisione della "Commissione" di "Cosa Nostra", sono perfettamente coerenti con le univoche indicazioni desumibili dalle modalità esecutive del delitto e dalla ricerca del movente.
Nel capitolo III, si è avuto modo di sottolineare come l’omicidio di Mario Francese presentasse tutti i connotati di un agguato di stampo mafioso: dalle risultanze delle indagini emerge con chiarezza la presenza di un piano criminoso particolarmente elaborato, che venne sviluppato ed attuato con l’efficace apporto di una pluralità di persone, provviste di una elevata capacità criminale e perfettamente coordinate tra loro, e sulla base di una accurata predisposizione di mezzi, protrattasi per un notevole arco di tempo. L’esecuzione del delitto era stata opera di un killer professionista, convinto della propria futura impunità, ed inserito in un’organizzazione criminale capace di avvalersi di consistenti risorse umane e logistiche in vista dell’attuazione degli obiettivi delittuosi programmati.
Come si è esplicitato nel capitolo IV, il movente dell’omicidio è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui Mario Francese aveva compiuto una approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia verificatesi negli anni ’70, aveva raccolto e diffuso un eccezionale patrimonio conoscitivo sulla struttura e sulle attività dell’associazione, aveva fornito all’opinione pubblica ed agli stessi organi investigativi importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di "Cosa Nostra", in un momento in cui iniziava a trovare concreta attuazione la nuova strategia criminale che mirava ad affermare, con gli strumenti del terrore e della collusione, il più assoluto dominio mafioso sui gangli vitali della società, dell’economia e della politica in Sicilia. Una strategia che Mario Francese aveva compreso e descritto con la massima lucidità e che, se non fosse stato ucciso, avrebbe certamente continuato a denunziare con forza, in coerenza con la propria limpida e coraggiosa storia professionale.
L’analisi dell’attività giornalistica di Mario Francese, condotta nel capitolo IV, evidenzia con assoluta sicurezza che l’omicidio di Mario Francese era riconducibile ad un interesse strategico di "Cosa Nostra".
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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