Per l’uccisione del fotoreporter italiano, morto in Ucraina nel 2014, un soldato italo-ucraino è stato condannato a 24 anni di carcere, ma a poche ore dal processo d’appello il lavoro di quattro giornalisti mette in dubbio quello dei giudici italiani
- Secondo gli autori del documentario ci sono parecchie cose che non tornano nella sentenza di primo grado
- Per il loro lavoro hanno visitato per tre volte il luogo dove è morto Rocchelli e hanno intervistato testimoni mai sentiti dagli investigatori
- Secondo i risultati della loro inchiesta, Rocchelli sarebbe morto in un tragico incidente di fuoco incrociato
Il 29 settembre, inizierà a Milano il processo di appello a Vitaly Markiv, il soldato ucraino accusato di aver ucciso il fotoreporter Andrea Rocchelli e il suo interprete, il cittadino russo Andrei Mironov, morti il 24 maggio del 2014, nel corso di un bombardamento, mentre si trovavano sulla linea del fronte tra l’esercito ucraino e i separatisti appoggiati dalla Russia. Markiv, che ha la doppia cittadinanza italo ucraina, si trova in prigione dal 2017, quando è stato arrestato mentre tornava dall’Ucraina per visitare la sua famiglia, che vive da anni in Italia.
Nel luglio del 2019, il tribunale di Pavia, la città dove è nato Rocchelli e dove si è svolto il processo di primo grado, ha stabilito che il 24 maggio 2014 Markiv ordinò agli uomini del suo plotone di aprire il fuoco contro i due giornalisti. Il tribunale sostiene che Markiv sapeva che si trattava di giornalisti e che il suo obbiettivo era eliminare due scomodi testimoni e per questo lo ha condannato a 24 anni di carcere per concorso in omicidio, con l’aggravante della crudeltà. Ma un nuovo documentario, realizzato da un gruppo di giornalisti italiani e ucraini, mette in dubbio questa ricostruzione.
Il documentario
«La sentenza è basata solo su elementi indiziari e lascia aperti molti dubbi su come la vicenda si sia effettivamente svolta. Per questo dopo mesi di confronto con altri colleghi abbiamo deciso di andare più a fondo nella vicenda», dice Cristiano Tinazzi, il regista del documentario. Tinazzi è un giornalista freelance e istruttore di corsi di sicurezza per giornalisti in situazioni di guerra e ha una lunga esperienza di reporting in Siria, Afghanistan e Libia. Insieme alla giornalista ucraina Olga Tokariuk e ai giornalisti Danilo Elia e Ruben Lagattolla ha realizzato il documentario “The Wrong Place” nel corso di un anno, finanziandolo con un crowdfunding su internet che ha raccolto quasi ventimila euro.
Gli autori del documentario si sono recati per tre volte in Ucraina, hanno ispezionato il passaggio a livello ferroviario dove sono morti i due giornalisti e la collina presidiata dall’esercito ucraino dove si trovava Markiv. Hanno realizzato un’accurata planimetria della zona, servendosi di droni e dell’aiuto di esperti cartografi. Grazie a questi rilevamenti, hanno scoperto che Markiv era troppo lontano per identificare con sicurezza Rocchelli e Mironov come giornalisti ed era troppo lontano anche per sparare contro di loro con i fucili e le mitragliatrici che aveva in dotazione al suo plotone.
Hanno raccolto gli ultimi filmati girati dal gruppo di giornalisti sotto attacco, in cui si sente Mironov dire che il gruppo si trova in mezzo al fuoco incrociato tra ribelli e soldati ucraini e parla di un mortaio ribelle che si sente sparare da una posizione vicino alla loro, che contraddicono l’accusa, che sostiene che l’attacco sia stato un’azione unilaterale e non provocata da parte degli ucraini.
Visitando la collina dove Markiv era di guarnigione, gli autori del documentario mettono in dubbio che la sua postazione fosse quella più adatta per sorvegliare il punto in cui è avvenuto l’attacco. Intervistando testimoni, ricostruiscono che il bombardamento che uccise i due giornalisti era probabilmente parte di un’azione di combattimento più ampia, avvenuta in un’area particolarmente calda del fronte.
Le indagini
La procura di Pavia ha iniziato a indagare subito dopo la morte di Rocchelli e Mironov, ma per mesi il caso sembrava impossibile da risolvere. I due giornalisti erano morti in quello che appariva come un tragico incidente di guerra. La svolta è arrivata quando gli investigatori si sono accorti di un articolo pubblicato sul sito del Corriere della Sera il giorno dopo la morte dei due giornalisti. Nell’articolo, lungo appena tre paragrafi, una giornalista freelance che si trovava sul posto raccontava di un colloquio avuto con un anonimo “capitano” dell’esercito ucraino. Gli investigatori sono rimasti colpiti da una frase in particolare di quella breve intervista: «Appena vediamo un movimento carichiamo l’artiglieria pesante. Così è successo con l’auto dei due giornalisti e dell’interprete».
Interrogando l’autrice dell’articolo e altri giornalisti presenti in Ucraina in quei giorni e incrociando i loro profili social, gli investigatori sono risaliti all’identità del “capitano” ucraino. Si trattava di Vitaly Markiv. Quelle parole nell’articolo sono diventate per l’accusa qualcosa di molto vicino a una confessione.
Markiv in realtà non era un capitano dell’esercito ucraino, come era scritto nell’articolo, ma un soldato semplice della Guardia Nazionale, il corpo volontario messo in piedi in fretta e furia dal governo ucraino per fronteggiare l’insurrezione nell’Est del paese. Non era l’unica imprecisione contenuta nell’articolo. Markiv, ad esempio, veniva identificato come il responsabile della “difesa della città”, ma in quel momento in realtà gli ucraini erano all’attacco della vicina Sloviansk, controllata dai filorussi.
Gli investigatori non diedero molto peso a queste incongruenze e si concentrarono su Markiv, che, per coincidenza, era probabilmente l’unico membro delle forze armate ucraine che avevano la possibilità di arrestare. Nato in Ucraina nel 1989, Vitaly Markiv si è trasferito in Italia con la sua famiglia a 16 anni e dopo gli studi ha ottenuto la cittadinanza italiana. La sua famiglia vive ancora nelle Marche e gli investigatori, che li intercettavano dal 2015, hanno arrestato Markiv nell’estate del 2017, mentre stava tornando in Italia per far visita alla madre.
Il processo
Il processo a Markiv è iniziato nel luglio del 2018 e si è svolto in un clima di forte polarizzazione e attenzione da parte della stampa italiana e internazionale. I media vicini al governo russo hanno sostenuto le tesi dell’accusa. Il sindacato dei giornalisti Fnsi si è costituito parte civile nel processo, mentre inviati di alto profilo di quotidiani e settimanali hanno partecipato a diverse udienze.
Il governo ucraino, invece, sostiene che Rocchelli e Mironov siano stati uccisi dai separatisti filorussi. I Radicali Italiani, di cui Mironov era stato membro in passato, e Più Europa, hanno invece spazi e supporto a chi metteva in dubbio le tesi dell’accusa.
Il Pm e i giudici italiani hanno cercato di tenersi lontani dalla politica e di concentrarsi sugli elementi fattuali. Ma svolgere un processo per un fatto avvenuto in una zona di guerra a quattro anni di distanza non è stato semplice. Né i Pm né gli avvocati di parte civile hanno mai visitato la zona dell’incidente e il dibattimento si è svolto in gran parte utilizzando fonti aperte e rintracciabili su internet: video, fotografie di Google Earth e chiedendo ai testimoni di ricostruire con carta e matita la loro posizione e l’ambiente in cui si trovavano al momento dell’attacco.
L’accusa si è concentrata anche sulla personalità di Markiv e sul suo comportamento al fronte, utilizzando soprattutto le fotografie e i video trovati nel cellulare e negli hard disk che gli sono stati sequestrati. Immagini in cui Markiv insieme agli uomini della sua unità mostrano una bandiera nazista o una figura accasciata in terra e con le mani legate, sono stati usati per indicare che Markiv era un individuo potenzialmente familiare con le violazioni dei codici di condotta in guerra (nel corso del conflitto entrambe le parti sono state accusate di aver commesso violazioni dei diritti umani).
Ma a parte questi elementi, l’accusa non ha potuto basarsi su molto altro. Al momento dell’attacco che ha ucciso Rocchelli e Mironov, sulla collina dove si trovava Markiv c’erano almeno altri 150 soldati ucraini. Gli autori del documentario hanno scoperto che tra la collina e il passaggio a livello c’erano un’altra decina di postazioni presidiate dagli ucraini. Non ci sono prove né testimonianze che indicano Markiv come il soldato che ha avvistato i giornalisti, li ha identificati come tali, ha ordinato di sparare contro di loro e poi ha guidato il bombardamento che li ha uccisi. «L’unico filo che connette Markiv alla morte di Rocchelli e Mironov è un contradditorio articolo di giornale», dice oggi Olga Tokariuk, una dei quattro autori del documentario.
Markiv è stato difeso dall’avvocato Raffaele Della Valle, lo stesso che negli anni Ottanta difese Enzo Tortora in uno dei più famosi casi di malagiustizia nella recente storia italiana. La famiglia di Andrea Rocchelli è invece rappresentata dall’avvocato Alessandra Ballerini. Ballerini non è risultata disponibile per un commento. Margherita Pisapia, avvocata del sindacato dei giornalisti, dice che si aspetta che la Corte d’appello confermi il giudizio di primo grado e dice che il documentario «non scalfisce il nucleo centrale della sentenza di primo grado nè la ricostruzione dei fatti emersa nel processo».
Tinazzi, Tokariuk e gli altri giornalisti hanno messo il materiale raccolto per il documentario a disposizione della Corte d’appello e hanno pubblicato una lunga anteprima del loro documentario. Prima di iniziarne la distribuzione sono in attesa di sapere se gli sarà permesso effettuare riprese durante il processo d’appello. «La morte di Andy e Andrei è una tragedia anche per noi, come colleghi, e anche noi cerchiamo la giustizia per loro - dice oggi Tokariuk -ma la giustizia vera, con un processo giusto e prove oltre ogni ragionevole dubbio».
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