Mario Francese, il «cronista investigatore» come lo definiva il questore Antonio De Luca, non si limitava infatti a pubblicare notizie acquisite dagli apparati istituzionali, preferendo investigare egli stesso su alcuni casi. Come quella volta a San Giuseppe Jato
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Anche le affermazioni di Giovanni Brusca in ordine al modo in cui gli "uomini d'onore" consideravano l’attività del giornalista (come «uno che indagava e dava fastidio a Cosa Nostra, (…) faceva più di un poliziotto, di un carabiniere») trovano precisa rispondenza nelle straordinarie capacità professionali di Mario Francese e nella sua eccezionale attitudine per il giornalismo di inchiesta. In proposito, appare significativo il seguente apprezzamento espresso, sul conto di Mario Francese, dal Questore Antonio De Luca nel verbale di assunzione di informazioni del 28 aprile 1998: «Lo ricordo diverso da tutti gli altri, un cronista investigatore. Il Francese non si limitava infatti a pubblicare notizie acquisite dagli apparati istituzionali, preferendo investigare egli stesso su alcuni casi».
Una indicazione che converge con quelle formulate da diversi colleghi della vittima, tra cui Ettore Serio (il quale, nel verbale di assunzione di informazioni del 6 maggio 1998, ha definito Mario Francese come «un cronista che, lungi dal limitarsi a “leggere carte”, investigava personalmente riuscendo ad acquisire informazioni “di prima mano”»). Il giornalista Giuseppe Sottile, nel verbale di assunzione di informazioni del 24 aprile 1998, dopo avere sottolineato la passione per il lavoro e l’ansia di verità che animavano il cronista ucciso, ha specificato che della inchiesta sulla diga Garcia «Mario Francese si era occupato tenacemente e appassionatamente, vantandosene anche con i colleghi come di una inchiesta impegnativa cui mostrava di tenere particolarmente».
Il famoso “dossier”
La rilevanza che le inchieste giornalistiche di Mario Francese assumevano per gli organi investigativi è evidenziata dalle dichiarazioni del Generale Subranni, il quale ha esplicitato di avere tenuto conto, per la redazione di una parte dei rapporti giudiziari da lui redatti, di alcuni articoli di stampa scritti da Mario Francese sui lavori della diga Garcia, trattandosi di materiale particolarmente interessante.
Importanti spunti di indagine sarebbero stati offerti anche dal dossier redatto da Mario Francese. Sembrano, al riguardo, particolarmente significative le osservazioni del giornalista Francesco Nicastro, il quale, nel verbale di assunzione di informazioni del 23 aprile 1998, essendogli stato domandato cosa vi fosse di nuovo nel “dossier Francese” rispetto a quanto era già stato pubblicato, ha risposto: «C’era molto di nuovo, essendo il portato di una indagine giornalistica che mirava a ordinare e sistemare tutto il materiale che in qualche modo era stato raccolto nel corso di quegli anni. E poiché in quel periodo era in corso un processo di ristrutturazione e di ricambio generazionale nell’organizzazione mafiosa, tutto quello che sull’argomento pubblicava FRANCESE rappresentava una novità molto significativa, giacché offriva, anche agli inquirenti, uno strumento nuovo di analisi del fenomeno mafioso. Pur con tutti i limiti di conoscenza della mafia, propri di quegli anni, credo che il lavoro già avviato dal FRANCESE consentisse di delineare nelle grandi linee gli scenari criminali nuovi che oggi sono un patrimonio cognitivo acquisito. Ricordo di avere parlato in più occasioni col collega Gianni LO MONACO del fatto che queste anticipazioni ed informazioni giornalistiche non ancora approdate alla sede giudiziaria, costituissero per il FRANCESE una potenziale fonte di pericolo, specie avuto riguardo alla “qualità”, anche rozza, dei soggetti chiamati in causa».
Una cena a San Giuseppe Jato
Riscontri particolarmente pregnanti sono stati acquisiti anche in ordine all’affermazione di Giovanni Brusca di avere notato - intorno al 1978-79, mentre si trovava a San Giuseppe Jato insieme a Leoluca Bagarella - Mario Francese recarsi presso la trattoria “A zia Lia”, sita all’ingresso di San Giuseppe Jato, facendo uso di un’autovettura di colore chiaro.
Le indagini svolte dalla polizia giudiziaria hanno evidenziato che, già all’epoca del fatto, esisteva in Via Piana degli Albanesi n. 20, all’ingresso del paese di San Giuseppe Jato, una locanda con annessa trattoria, denominata “z’a Lia” (v. l’esito degli accertamenti trasmessi con la nota dell’11 luglio 2000 della D.I.A. di Palermo).
La circostanza che Mario Francese nel luglio del 1978 si sia recato in una trattoria di San Giuseppe Jato è desumibile dal seguente articolo di Salvatore Scimè, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 28 gennaio 1979, ed incluso nella documentazione consegnata il 14 maggio 1996 dal figlio della vittima, Giuseppe Francese, alla D.I.A.: Me lo aveva ricordato proprio qualche giorno fa. «Ci dobbiamo tornare a San Giuseppe» aveva detto con un sorriso un po’ triste. «Ma, sai, non so se potrò tornare in quella trattoria. A mangiare e bere mi devo un po’ limitare. Il mio cuore…». E il suo sorriso era diventato ancora più triste.
A San Giuseppe Jato ci eravamo andati l’estate scorsa, una calda giornata di fine luglio perché all’ombra dei viadotti della superstrada per Sciacca c’era stato un numero incredibile di omicidi. E Mario, mentre guidava sull’autostrada la sua vecchia Giulia con i finestrini rotti ed i freni allentati, ripeteva: «E’ la solita storia di appalti e subappalti, la concorrenza tra fornitori di sabbia e tra camionisti. Mafia vecchia e mafia nuova».
La prima tappa al cimitero di San Giuseppe. Mario conosceva tutti, perfino l’uomo che, con i guanti di plastica, aiutava il medico legale a squarciare un cadavere durante l’autopsia. Mario parlava e scriveva, sul suo solito quaderno con gli anelli in plastica. Poi una lunga camminata per il corso che unisce San Giuseppe a San Cipirello: alla ricerca di “boss” («Qua ci abita Celeste» mi disse Mario, dopo avere bussato al portone), sindaci, appaltatori e, soprattutto, “conoscitori” delle vicende dei due paesi.
Alla fine, in trattoria, tra un bicchiere di bianco e l’altro, facemmo un breve bilancio della giornata. E Mario dovette cedermi qualcuna delle sue notizie, perché lui ne aveva troppe ed io troppo poche. Poi finita anche la terza bottiglia di vino, siamo risaliti in macchina per tornare un po’ ubriachi al giornale. E Mario, tra una curva troppo larga ed una a gomito, ripeteva fino alla stanchezza: «Così si lavora, questo è giornalismo, Totò, tu che sei giovane, non aspettare davanti al tavolino, le notizie vattele a cercare. Io, ormai, sono vecchio».
Il figlio della vittima, Giuseppe Francese, nei verbali di sommarie informazioni del 28 e del 29 aprile 2000, ha specificato che il padre, quando morì, era proprietario di una Giulia Alfa Romeo di colore lilla, in anni precedenti aveva avuto in uso una Lancia Fulvia di colore bianco ed una Fiat 1100 di colore bianco, e, nell’agosto del 1977, si era recato a bordo di un’autovettura (secondo il ricordo del teste, una Fiat 131) di colore bianco, insieme all’inviato e al fotografo di un periodico, a Roccamena e nei dintorni, per consentire agli stessi soggetti di realizzare un servizio giornalistico sulla diga Garcia.
La circostanza che Mario Francese si fosse recato nella predetta trattoria è stata rammentata dal Brusca in modo del tutto spontaneo, mentre egli focalizzava i propri ricordi sull’omicidio del giornalista. Si tratta di una narrazione caratterizzata dalla più assoluta genuinità, apparendo chiaramente inverosimile che Giovanni Brusca, nel corso dell’interrogatorio cui era sottoposto, abbia ricordato un dettaglio (oltretutto, sicuramente privo di connotazioni suscettibili di attirare la sua attenzione) menzionato in un piccolo articolo giornalistico apparso ventun anni prima, senza particolare risalto, sul "Giornale di Sicilia", e sia riuscito, all’istante, ad imbastire su di esso un falso racconto corroborato da univoci riscontri.
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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