Di Ciancio a Catania si è sempre parlato tanto. Si parlava del suo potere, più che della sua figura, perché non appariva spesso in pubblico. Rappresentava la Catania bene nella sua edizione più esclusiva e raffinata. Gestiva sapientemente strumenti di evasione ed esigenze identitarie della sicilianità, mantenendo poco apparenti – se non occulte – le commistioni con la politica
Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.
Un protagonista delle vicende legate agli ipermercati è stato l’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo. Questa storia merita una premessa, per la sua rilevanza e per comprendere cosa può influenzare certe parabole nelle vicende politico-imprenditoriali ai piedi dell’Etna. Di Ciancio a Catania si è sempre parlato tanto. Si parlava del suo potere, più che della sua figura, perché non appariva spesso in pubblico. Se si eccettua un intervento registrato a un convegno sull’archivio storico, è difficile rinvenire una sua immagine sul web. Se ne è stato per anni volontariamente in disparte, curando l’arte antica come un vezzo. E con altri vezzi ha lasciato intendere il modello cui avrebbe voluto ispirarsi: ad esempio facendosi vedere nelle occasioni importanti con l’immancabile camicia bianca e il polsino fasciato dal cinturino dell’orologio. Le poche parole, pronunziate con una esse poco sibilante, toglievano il dubbio sul fatto che preferisse lo stile dell’avvocato di Torino a quello del cavaliere di Arcore. E così, esponendosi sapientemente in apparizioni rare e casuali, aveva creato attorno a sé un’atmosfera di misteriosa forza, che ha sfiorato l’onnipotenza quando ospitò, con un coup de théâtre, niente meno che i reali d’Inghilterra che erano in visita in Sicilia. L’inconsueta visita venne letta da alcuni con il ruolo rivestito dai reali nelle alte gerarchie della massoneria anglosassone; ma anche questa critica non ebbe altro effetto agli occhi dei catanesi, se non quello di elevare la sua considerazione fino quasi alla soglia del mito. Insomma, l’effetto di queste suggestioni era così forte da lasciar sospettare che tutto ciò non accadesse per caso: che la forza venisse lasciata intendere, anziché esibita, cosicché venisse immaginata ancora più consistente di quanto non fosse già di suo. E il gruppo Ciancio di forza ne possedeva. Operava nella carta stampata in un regime di monopolio di fatto con il quotidiano del mattino «La Sicilia» – affiancato per anni dal giornale del pomeriggio «Espresso Sera».
Già alla fine degli anni Settanta, all’interno dello stabilimento di viale Oderico da Pordenone andavano in pagina – con quelli che venivano allora considerati i più moderni sistemi di teletrasmissione – tutti i quotidiani più importanti su scala nazionale, da «Repubblica» alla «Gazzetta dello Sport». Inoltre il direttore de «La Sicilia» era anche un importante azionista e vice-presidente dell’Agenzia Ansa, la cui sede catanese veniva ospitata negli stessi locali del giornale. Queste condizioni nel mercato della carta stampata contribuirono a stabilizzare a Catania il monopolio dell’editoria, con l’eccezione della breve stagione del «Giornale del Sud» – il quotidiano che fu diretto da Giuseppe Fava. I principali quotidiani nazionali, da «Repubblica» al «Corriere», evitarono di aprire in città un foglio locale in competizione con chi stampava il loro giornale. E, d’altra parte, la concorrenza di «Gazzetta del Sud» e «Giornale di Sicilia» era pressoché irrilevante, essendo considerati dai lettori come i giornali di altre realtà territoriali. Alle vendite cospicue del prodotto editoriale si affiancavano i proventi della pubblicità, commissionata anche da enti pubblici. E diciamo pure che per un bel po’ di tempo – quando ancora la spesa pubblica non era sotto i riflettori – sindaci e presidenti di provincia compravano pagine, magari con la speranza di ricevere un’attenzione dal giornale locale se non proprio una bella intervista con tanto di foto in posa.
Un impero
[…] In queste condizioni di forza, già nel 1985 l’editore catanese aveva messo a segno il suo allungo. Gli era stato agevole surclassare con gli ascolti e i proventi della pubblicità la concorrenza di Teletna, l’emittente televisiva del cav. Recca, che era stata la prima ad accendere i ripetitori e a trasmettere le partite del Catania. Tanto che ne acquisì agevolmente il pacchetto societario e i diritti televisivi. Nella città dove contano gli affari e il successo, Ciancio aveva centrato i suoi obiettivi: disponeva di forza economica, di credito politico e del consenso popolare per aver avuto la capacità di chiamare a raccolta attorno a sé i catanesi che contano. Egli rappresentava la Catania bene nella sua edizione più esclusiva e raffinata, e al tempo stesso soddisfaceva i desideri del popolo. Gestiva sapientemente strumenti di evasione ed esigenze identitarie della sicilianità, mantenendo poco apparenti – se non occulte – le commistioni con la politica. Diciamo che stava all’intuito dei catanesi comprendere che quel monopolio lo stagliava al di sopra della classe dirigente della città e che egli, col potere di cui disponeva, era in grado di poterne orientare le scelte, da perfetto erede di quella classe dominante catanese raccontata nei romanzi del primo Novecento.
Il suo successo era coinciso in gran parte con il periodo storico di dominio della Democrazia Cristiana e con l’epopea dei cavalieri del lavoro, le cui iniziative politico-economiche trovavano sempre una importante eco nel giornale. Si trattava di un tutto tondo che non escludeva alcuna prospettiva, neppure quella giudiziaria. Per utilizzare un concetto caro al compianto Giambattista Scidà, potremmo dire che l’informazione unica riusciva a dare una propria lettura di tutti i fatti, anche di quelli giudiziari, accreditando a priori una pseudo-identità vincente. Il Catania in serie A. Imprenditori-Cavalieri di serie A che invadevano Palermo e il nord Italia. Politici rampanti che puntavano ai vertici dello Stato. E in quel delirio di anni Ottanta, stordito dalla musica rock e dal suo sogno identitario, il popolo recepiva le posizioni minimaliste sul ruolo e la consistenza della mafia alle pendici dell’Etna, descritta come una realtà fatta di bande ed estranea a Cosa nostra, mentre invece i catanesi vi militavano nella serie maggiore. Proprio mentre Giuseppe Calderone prima e Nitto Santapaola poi ascendevano nella struttura di comando della cupola, mantenendo uno stretto rapporto con i cavalieri dell’Apocalisse; cioè mentre la mafia catanese e il suo metodo invadevano l’intera nazione.
Tutt’intorno vi era poco o nulla di diverso vi sarebbe stato. Se si eccettua Giuseppe Fava e il gruppo dei giornalisti che lo aveva seguito, poche sono state nel tempo le voci fuori dal coro dell’informazione ufficiale de «La Sicilia». Ne sanno qualcosa Giuseppe Giustolisi e Marco Travaglio che sono stati autori – molti anni dopo – del coraggioso pezzo Arrivano i catanesi pubblicato su «Micromega» nel 2006, con cui esprimevano forti critiche a questo monopolio informativo, ma anche alla vita pubblica e giudiziaria della città, nel denunciare il cosiddetto Caso Catania che vedeva coinvolti anche politici e magistrati. Un pezzo che costò loro una querela per diffamazione da parte del presidente dell’associazione nazionale magistrati, e che li vide resistere in giudizio venendo poi assolti da ogni addebito.
Intanto in città, proprio negli anni del maggior successo, iniziavano a circolare i primi echi di alcune vicende che avevano destato sconcerto nella opinione pubblica. A Palermo il 27 luglio del 1985 veniva ucciso Beppe Montana, un “catanese” di cui si poteva davvero andare orgogliosi. La famiglia in occasione del Trigesimo preparò un necrologio nel quale esprimeva il suo «rabbioso rimpianto», «rinnovando ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori». Era un modo per dire che in quella città, con quel sistema di potere e di informazione il sacrificio di Beppe era rimasto insabbiato e dimenticato. Quel necrologio non sarebbe stato mai pubblicato, sul presupposto che contenesse la parola “mafia”. Tempo dopo vi fu la vicenda del capo mafia Ercolano, che protestò contro il giornalista Concetto Mannisi – che in un suo pezzo lo aveva definito “boss” – e ottenne la soddisfazione di vedere il cronista redarguito dal “direttore” in sua presenza.
Tutto questo – sussurrato, ma ben conosciuto dai catanesi – non impedì al gruppo editoriale e al suo direttore di continuare ancora per anni a navigare sicuri. Tant’è che anche la crisi istituzionale del 1992, con la piccola rivoluzione giudiziaria provocata da Tangentopoli ai piedi dell’Etna – che abbiamo raccontato in Catania bene – lasciò quasi indifferente il gruppo di viale Oderico da Pordenone; che anzi ne cavalcò l’onda proponendosi strategicamente come l’interlocutore del “nuovo” che si sarebbe affacciato in politica. Pur evitando di esprimere una critica aperta ai metodi della vecchia classe dirigente della città – che il giornale aveva sostenuto quando governava – strategicamente si dava risalto alle vicende giudiziarie che in poco tempo sovvertirono l’assetto politico ed economico. E così il 24 maggio 1993 – all’aprirsi della tangentopoli nella città dell’elefante – il quotidiano avrebbe titolato in prima pagina: Tangenti, l’ora di Drago, scaricando uno dei big della politica, cui aveva dato voce anche in situazioni inopportune, per non dire imbarazzanti. Solo alcuni anni prima – all’indomani dell’omicidio di Giuseppe Fava, avvenuto il 6 gennaio del 1984 – il leader andreottiano sulla stampa aveva tuonato contro le ricostruzioni che accostavano il “buon nome dei cavalieri” al movente di mafia dell’omicidio. E adesso invece quell’arresto, e i molti altri che ne sarebbero seguiti, venivano presentati come una realtà ineluttabile e quasi doverosa. E chiara emergeva la volontà di schierarsi con il nuovo e di mollare il vecchio in attesa che verità giudiziaria e informazione potessero liberare gli spazi che erano stati del pentapartito e della Prima Repubblica, affinché altri potessero occuparli. Caduti i cavalieri e la classe politica dirigente che si riassumeva nel trinomio Drago-Andò-Nicolosi, il gruppo editoriale ed economico rappresentava l’unico vero potere rimasto in piedi. Ed era così pronto a celebrare gli uomini delle primavere siciliane, per accompagnare altre stagioni di governo della città nel nome di un rinnovamento che avrebbe fatto sbiadire anche il pelo fitto del Gattopardo. Frattanto, mentre irrompevano le “primavere”, il monopolio si era esteso alle tv locali, finendo per inglobare anche l’emittente Telecolor, che – secondo quanto ricostruito nelle indagini della Commissione antimafia e nei procedimenti civili avviati per illegittimi licenziamenti – venne dapprima acquisita dal gruppo Rendo ma poi depotenziata finanziariamente (attraverso la creazione di una agenzia di stampa che le sottraeva risorse) e infine falcidiata dei suoi storici redattori.
Queste scelte intervennero proprio nel momento in cui gli interessi finanziari dell’imprenditore viravano verso situazioni non limpide, che avrebbero attratto di lì a poco l’attenzione della Procura della Repubblica. Nel silenzio della stampa che conta, per una legge del contrappasso, furono i giornali di internet a rivelare le scomode verità che avrebbero portato al declino del gruppo.
Si sta sempre con chi vince
Il dissenso, che per anni era stato silenzioso, divampò; e l’immagine di Mario Ciancio – che aveva resistito solida quando il giornale avallava la possibile natura passionale dell’omicidio di Giuseppe Fava o dava eco a quanti dichiaravano “a Catania la mafia non esiste”, – andò in crisi nello spazio di un mattino. Il resto è storia recente fino al processo per concorso esterno in associazione mafiosa, in corso di svolgimento, e alla misura di prevenzione.
Quella appena riferita è una parabola tipicamente catanese, nella quale consenso e successo obbediscono a proprie logiche. Il bene e il male sembrano sprigionare da una medesima energia, ma si riconoscono e si distinguono per la direzione che prendono le azioni umane. Ma purtroppo, come avranno bene inteso i lettori, a Catania il consenso è spesso scollegato dal bene. Esso, come si racconta in certi romanzi russi, è conseguenza del successo, mentre la crisi del suo opposto. In altre parole: si sta sempre con chi vince.
Così si spiegano i rovesciamenti di fronte e i riposizionamenti di tanti uomini pubblici “ravveduti” dopo anni di accondiscendenza. Per cui, come direbbe il poeta, ricordando il gioco dei dadi nelle piazze medievali di Firenze… “colui che perde si riman dolente…., con l’altro se ne va tutta la gente”. Solo adesso, e non prima, perché l’etica ufficiale – o forse meglio la sua rappresentazione – ha sempre vestito l’agire del più forte. E così chi ha perduto la propria battaglia di verità, quando non anche i propri diritti o il posto di lavoro, in passato ha spesso avuto torto anche nella rappresentazione pubblica. E questo può accadere ancora e in ogni settore: nella politica, nella giustizia e ovunque la faccia da padrone l’accordo tra poteri. Persino nella gioiosa macchina da guerra dell’antimafia, come vedremo.
Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita
Nota: nel gennaio 2021 è diventato definitivo il dissequestro dei beni appartenenti a Mario Ciancio Sanfilippo mentre il processo per concorso esterno è ancora in corso.
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