- Beatrice Cristalli, linguista e autrice, durante il lockdown ha creato sull’app di incontri uno sportello d’aiuto. Tanti hanno accettato di confidare le proprie ansie a una sconosciuta per riempire la vita chiusi in casa.
- Quello che è emerso è il ritratto di una società che rifugge dall’altro e dall’amore. E «un panorama variegato di uomini. Perché non sono riuscita a entrare in contatto con donne».
- Così, tra uno swipe e l’altro, iniziavano le sedute di terapia. «Spesso erano loro a contattarmi perché attratti dalla foto profilo: un ritratto onirico di due amanti che si baciano ma sembrano non incontrarsi».
«Ciao, ho un problema di rimozione, puoi aiutarmi?»
«Raccontami».
«Ho problemi relazionali, mi appassiono troppo velocemente e mi stufo altrettanto velocemente. Cosa posso fare?»
«Cosa provi quando senti che devi scappare da qualcosa?»
«Noia».
Iniziavano così le chat con lo Sportello psicologico su Tinder durante la pandemia. Gli utenti si lasciavano attrarre da questo curioso account che aveva «un nome di invenzione, Maddy, una foto di un quadro criptico e sessualmente ambiguo, e una biografia molto chiara, ma allo stesso tempo ironica: Sportello psicologico». Beatrice Cristalli, linguista e autrice per Treccani, così spiega di aver iniziato il suo esperimento sociale. «Durante il lockdown sono esplose le iscrizioni alle app di dating, in quanto unico strumento a disposizione per conoscere persone. Inoltre gli psicologi hanno fatto scattare l’allarme: molte persone, a causa della situazione di isolamento e precarietà economica, hanno manifestato disagi e richieste di ascolto. Allora mi sono chiesta, perché non unire le due cose?» Cristalli ha aperto, dunque, un profilo falso su Tinder giocando con la leggenda metropolitana secondo cui la regina delle app di incontri è il più famoso ricettacolo di casi umani. Tra l’altro, il social nato per avventure di letto sta cambiando anche in Italia e viene sempre più usato per fare amicizia.
Come cambia Tinder
Perciò «Tinder mi è sembrato il campo d’indagine perfetto per la mia ricerca sociologica». La linguista allora si è camuffata in psicologa per indagare l’evoluzione dei rapporti sociali e social anche attraverso lo specchio della lingua. Ma non è l’unica ad aver fatto incontrare psicologia e web. La business coach, Maria Beatrice Alonzi, per esempio, ha creato un social network anonimo e gratuito, Home Escape, per sfogarsi durante la quarantena. E la psicologa Danila De Stefano ha fondato Unobravo, una piattaforma digitale che seleziona lo psicologo più adatto all’utente grazie a un algoritmo di matching. Lo Sportello Psicologico di Maddy, dunque, è rimasto aperto da novembre a gennaio e ha avuto circa 30 pazienti, localizzati nell’area di Milano, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, quindi giovani della Generazione Z e Millennial. Quello che è emerso è il ritratto di una società che rifugge dall’altro e dall’amore. E «un panorama variegato di uomini. Perché non sono riuscita a entrare in contatto con donne». Così, tra uno swipe e l’altro, iniziavano le sedute di terapia. «Spesso erano loro a contattarmi perché attratti dalla foto profilo: un ritratto onirico di due amanti che si baciano ma sembrano non incontrarsi». Affascinati dal mistero, mettevano da parte i sospetti e si lanciavano in chat puntando sull’ironia. “Avrai un sacco da lavorare visto che qui ci sono molti casi umani”, mi scrivevano», così Maddy, doveva convincere i suoi interlocutori della serietà dello sportello.
La stragrande maggioranza però capiva subito il senso dell’esperimento e acquisiva lo stesso tono tra il serio e lo scherzoso. «Esordivano con espressioni del tipo “ma che davvero uno sportello psicologico?”, “eccola è arrivata Madre Teresa”, “seeee vabbè. Questa fa tirocinio in smartworking”, “cheppalle qui non si scopa”, oppure “oh che figata assurda! Psicologa gratis”. Altri ancora, iniziavano con un banale “ciao, come stai?” come se fossi un contatto normale». In fondo, ai più decisi a stare al gioco non importava poi tanto se Maddy fosse una vera psicologa, così Tinder diventava il loro lettino di analisi. «Perché è più facile aprirsi con sconosciuti». Una volta stabiliti i ruoli, la conversazione poteva prendere il largo. «Su trenta persone con cui ho chattato dieci di queste mi hanno fatta entrare nelle loro vite. Mi hanno raccontato di lutti familiari dovuti al Covid-19 o malesseri causati dal lockdown: la paura o il fastidio di stare con gli altri, ma anche da soli, il desiderio di cambiare lavoro ma di non sentirsi all’altezza, un senso di angoscia perenne e l’insonnia. Erano persone in situazioni di stallo come navi incagliate». La maggior parte poi finiva a parlare di relazioni, spesso problematiche. «”Mi annoio con le donne e tendo sempre a scappare”, mi scrivevano i perenni insoddisfatti. Altri ancora mi dicevano di essere appena usciti da una relazione, di non sapere cosa volevano, non riuscire a condividere niente con le donne, né a convivere con loro o ad avere rapporti occasionali. “Maddy, sono una persona normale?”». Ma come una psicologa professionista, Maddy si limitava a fare domande. «Certo però è difficile scandagliare nell’emotività degli uomini. Hanno un codice comunicativo molto diverso da quello delle donne». Ad ogni modo nessuno si è preso gioco della presunta psicologa, «perché ci stavano molto bene nella parte di pazienti». Così Maddy si trasformava in un cestino in cui vomitare problemi. «Questo succede su tutti i social. Si ha bisogno di parlare con altre persone, che però vengono viste come oggetti su cui scaricare i propri problemi».
Resta tutto sull’app
Emblematico di questo fenomeno è il fatto che le chat non portino quasi mai a un incontro dal vivo. Certamente l’esperimento di Maddy è avvenuto in pieno lockdown, ma non c’era neanche da parte degli utenti il desiderio di incontrarsi una volta possibile. L’unica eccezione è stata quella di un interlocutore di 35 anni che le ha raccontato di essere stato lasciato dalla compagna. «È stato l’unico a chiedermi di incontrarci. Ma Milano era in zona rossa e l’unico modo era andare al supermercato. Mi ha raccontato tutta la sua storia, ma io ero invisibile. In fondo, era solo interessato a sé stesso». I dialoghi così diventano monologhi, le relazioni si trasformano in connessioni, che possono essere interrotte a proprio piacimento e senza neanche dover avvisare l’altro. Ormai tutti conosciamo il ghosting. «Il sistema digitale ha mutato la nostra società in una community performante, in cui l’io è diventato un personaggio. Nell’onlife siamo tutti soggetti autoperformanti, costantemente sollecitati a dare il meglio di noi, le foto devono essere belle, i post accattivanti. Nella vita reale il dialogo con una persona è anche fatto di silenzi, imbarazzi, gaffe, invece nelle chat tutto è meditato e concentrato sulla performance».
E su Tinder la costruzione del proprio avatar parte proprio dalla biografia, dalle parole con le quali intendiamo rappresentarci. «Mi ha colpito l’abbondanza di informazioni su di sé (“sono simpatico, solare, in cerca di amicizie” che riecheggia le note ironiche di Vipra), sui propri interessi (“viaggi, Netflix, trekking”), sulla propria situazione sentimentale (“sono in una relazione poliamorosa/ coppia aperta/ fidanzato e voglio fare nuove scoperte”)». In queste chat, quindi, non c’è spazio per l’altro, vien da sé che l’amore, di cui parlano tutti ma nessuno cerca davvero, è una malattia da cui fuggire. «Ho notato una quantità di termini clinici (relazione tossica, dipendenza affettiva, bipolarismo) spesso usati in modo improprio, che mi hanno fatto ripensare alla teoria dei catching feelings, analizzata dalla sociologa Jean Twenge nel saggio Iperconnessi, ossia della contrazione dei sentimenti. Il verbo inglese to catch è generalmente legato alla malattia, così l’amore è qualcosa che stringe l’anima come un virus che stringe i polmoni». Se l’altro è visto come un oggetto o un bot che genera risposte automatiche, non bisogna innamorarsi, o tanto vale provare poliamori, che equivale a non provarne alcuno. «Chi ci crede più alla monogamia?/ Era solo sesso un po’ come il comunismo/ Una cosa che funziona in teoria», cantano Marracash e Elodie in Margarita.
«Dunque dopo tre mesi di ricerche su Tinder e di analisi delle conversazioni, o meglio, delle confessioni, ho elaborato la teoria della compensazione amorosa digitale. Bastano anche solo le parole, in chat, per colmare il vuoto. Gli iscritti alla piattaforma non cercano una persona da frequentare, ma si servono della chat come uno strumento di compensazione». Perché se in tempi di pandemia abbiamo trasferito la nostra vita online, è sul web che cerchiamo anche quei rapporti superficiali che il sociologo Mark Granovetter chiama “legami deboli”. I giovani della Generazione Z e i Millennial, single o fidanzati, «si iscrivono alle app di dating semplicemente per avere un feedback sul proprio livello di seduzione». Quello che conta è sfoderare battute brillanti per suscitare reazioni. «La mia teoria abbraccia, dunque, quello che viene chiamato narcisismo digitale».
Oggi, che dalla pandemia stiamo gradualmente uscendo, qualcuno avverte una dating fatigue. Ma cosa si prospetta all’orizzonte degli incontri online? Secondo un recente sondaggio di Tinder, il 40 per cento dei membri della Gen Z continuerà ad avere appuntamenti digitali anche quando l’emergenza sarà finita. Intanto, di una cosa è certa Beatrice Cristalli: «Nella ritrovata normalità di una chiacchiera in un caffè riscopriamo quella sensazione dello stare nel presente, l’unica dimensione che ci connette all’altro».
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