- Nessuno, nemmeno il commissario al Covid-19, sa quanti sono gli ultrafragili da vaccinare a domicilio. Solo regioni e aziende sanitarie locali tengono il conto, ma i dati sono difficili da ottenere: gli esperti stimano fino a 2 milioni di persone.
- A occuparsi di loro sono gruppi di sanitari delle Asl, medici dell’esercito inviati dal commissario Figliuolo e soprattutto medici di medicina generale.
- Quello che è sicuro è che nonostante gli ultrafragili siano in cima alle priorità del piano vaccinale, le regioni li hanno messi in fondo alla lista: per disorganizzazione, per la difficoltà di raggiungerli e per il timore di rallentare le altre vaccinazioni.
Vera Biancalani è una di quelle persone che in gergo si definiscono “ultrafragili”. Ha 74 anni e da anni la sclerosi multipla la costringe a letto nella sua casa, poco lontano da Genova. Secondo le priorità stabilite dal governo, Biancalani avrebbe dovuto essere una delle prime a ricevere il vaccino. Suo figlio ha provato a informarsi per la prima volta su come e quando sarebbe avvenuto lo scorso gennaio. Sono passati quattro mesi e non ha ancora ricevuto risposta.
Mentre il governo celebra il traguardo delle 500mila vaccinazioni in un giorno e il commissario al Covid-19 Francesco Figliuolo dà il via libera alle vaccinazioni di massa nelle località turistiche e a chi ha più di 50 anni, migliaia di ultrafragili come Vera Biancalani sono ancora in attesa.
Domani ha parlato con una dozzina di parenti di ultrafragili, di medici, di dirigenti sanitari e di responsabili della struttura del commissario straordinario all’emergenza Covid-19. Quello che è emerso è che nella fretta di raggiungere traguardi simbolici nel numero di vaccinazioni, i più fragili tra i fragili sono stati lasciati indietro.
Le cifre
Ultrafragili, allettati, domiciliari, non autosufficienti. Sono tanti i nomi con cui vengono chiamate le persone costrette a letto o nelle loro abitazioni e che hanno bisogno di essere vaccinati a domicilio. La varietà dei termini con i quali vengono identificati riflette la mancanza di attenzione nei confronti di questa categoria.
Si tratta soprattutto di persone affette da malattie degenerative come la Sla e il Parkinson, da fasi avanzate di demenza senile, da patologie oncologiche. Alcuni sono costretti a letto da una grave forma di ictus. Altri sono affetti da un insieme di patologie, senza che nessuna sia preminente nel determinare le loro condizioni.
Nessuno sa esattamente quanti siano in Italia. «I dati sulle persone non autosufficienti sono da sempre molto confusi e la definizione è molto incerta», dice il professor Marco Trabucchi, geriatra e membro del Network della non autosufficienza. Secondo una stima approssimativa condivisa dagli esperti, nel nostro paese ci sono tra un milione e mezzo e due milioni di persone in queste condizioni.
Il piano vaccinale assegna loro una priorità molto alta: subito dopo quella di operatori sanitari e gli ospiti delle Rsa. Le loro vaccinazioni avrebbero dovuto iniziare a febbraio. Quale sia la situazione complessiva oggi nessuno lo sa con esattezza, nemmeno la struttura del commissario Figliuolo. Ogni regione fa i suoi conteggi e ottenere i dati è una procedura lunga e complessa. A volte i dati sono in mano alle singole aziende sanitarie e non vengono né aggregati né resi pubblici.
«Siamo sulla vecchia storia di sempre: le vaccinazioni al Covid hanno messo in luce la mancanza di attenzione alle persone più fragili», dice Trabucchi.
Il caos
Claudia Tavani, blogger di viaggi che vive a Cagliari, in Sardegna, ha avuto una doppia disavventura con i vaccini. Per settimane ha tentato senza successo di ottenere informazioni su quando suo padre, diabetico di 77 anni, sarebbe stato vaccinato. Suo zio, malato di Sla con una tracheotomia e costretto a letto in un piccolo paese a venti minuti da Cagliari, è ancora in attesa di vaccino.
In Sardegna il sistema di prenotazione regionale prevede una corsia speciale per le persone fragili, ma si è inceppato e i malati cronici come suo padre sono finiti in fondo alla lista di priorità. «Se mio padre non fosse stato malato sarebbe stato vaccinato due mesi fa», come sua madre, di pochi anni più giovane, che è stata vaccinata ad aprile.
Decine di telefonate alle aziende sanitarie e al medico curante non sono state sufficienti a sbloccare la situazione. Venerdì mattina Tavani è finalmente riuscita a far vaccinare il padre. Ma lo zio costretto a letto è ancora in attesa.
«I medici qui si rifiutano di fare vaccinazioni a domicilio – dice – nessuno va a vaccinarlo. Cosa dobbiamo fare, oltre che rivolgerci ai santi in paradiso?». I gruppi che i parenti dei malati hanno organizzato sui social network le hanno offerto una magra consolazione: la sua famiglia non è sola, il problema è diffuso in tutta l’isola.
Una scatola opaca
La difficoltà di ottenere informazioni è uno dei problemi che i parenti degli ammalati lamentano più spesso e un segno di come la pianificazione delle vaccinazioni a domicilio sia stata sistematicamente trascurata.
«Il sistema è una scatola nera completamente opaca», dice Giovanni Arata, il figlio di Vera Biancalani. Arata è un giornalista che lavora per il portale di informazioni del comune di Bologna e conosce i meccanismi della pubblica amministrazione. Dice di capire le difficoltà organizzative che stanno incontrando medici e dirigenti e racconta con un certo pudore di come le sue competenze gli abbiano dato strumenti migliori di molti altri per ottenere qualche risposta. Lo chiama “lobbying costruttivo”.
Sua madre vive in Liguria, la regione più anziana d’Italia e una di quelle che ha avuto le maggiori difficoltà a vaccinare i suoi fragili ed anziani. Arata racconta di aver iniziato a cercare informazioni sulla vaccinazione di sua madre a gennaio, chiedendo per primo al suo medico curante, come veniva indicato dal sito della regione. Ma il medico, oltre a fare una segnalazione all’azienda sanitaria, non ha potuto aiutarlo molto. Come a spiegare la sua impotenza, a un certo punto, gli ha inviato una fotografia dello schermo del suo computer in cui mostrava l’ennesima segnalazione della situazione. Accanto al nome di Vera Biancalani non c’era nemmeno un numero di pratica a cui poter fare riferimento.
Arata non si è perso d’animo e ha provato a rivolgersi all’ufficio relazioni con il pubblico della Asl di Chiavari. Gli hanno risposto che non avevano informazioni e che se anche le avessero avute non avrebbero potuto dargliele. Ha provato anche a contattare direttamente una dirigente della Asl, utilizzando l’indirizzo trovato sul suo curriculum pubblico. Nulla nemmeno da lei.
«Verso la fine di marzo ho tentato di usare la classica strada del cittadino arrabbiato: ho scritto pubblicamente sui social, rivolgendomi al presidente della regione», racconta.
La sua segnalazione insieme a quelle di molti altri, hanno fatto arrivare la storia delle vaccinazioni domiciliari sui telegiornali locali e nel consiglio regionale. Due settimane fa, la madre è stata contattata dalla Asl. Non le hanno dato una prenotazione, ma si sono limitati a verificare che fosse effettivamente lei e che avesse bisogno di una vaccinazione a domicilio.
«Hanno finalmente appreso della sua esistenza – dice Arata – ma da allora nessuno l’ha chiamata per darle un appuntamento». Come Claudia Tavani in Sardegna, anche Arata non è solo. «Ho l’impressione che questa disorganizzazione sia la prassi in Liguria – dice – Secondo il mio medico di famiglia ci sono stati ritardi e disorganizzazione. Tutto questo mi fa pensare che non sia un caso che riguarda solo mia madre».
Territori difficili
Vaccinare a domicilio può presentare enormi difficoltà logistiche. Non è sempre facile individuare e contattare le persone ultrafragili. E una volta che ci si riesce bisogna raggiungerle. L’Italia è un paese di montagne e di piccoli paesi in cui è difficoltoso anche un compito apparentemente così semplice.
In Calabria, una delle regioni più in ritardo nella campagna, da circa due settimane squadre di medici dell’esercito sono impegnate nell’aiutare medici di famiglia e operatori sanitari nelle vaccinazioni a domicilio. A causa della conformazione della regione, fatta di montagne e di strade poco praticabili, i militari non possono procedere in ordine di prenotazione, spiega il tenente medico Federica Ranieri. «Se due persone prenotano da paesi diversi, non possiamo spostarci dall’uno all’altro. Dobbiamo procedere per zona».
La situazione della provincia di Reggio Calabria, con decine di piccoli paesi sparsi per l’Aspromonte, rappresenta una delle aree più impegnative della regione. Molti dei vaccinati sono ultra ottantenni, ma ci sono anche diversi casi di giovani con gravi patologie impossibilitati a vaccinarsi in uno degli hub provinciali.
Per aiutare le regioni a vaccinare a domicilio nelle aree più lontane dai centri abitati, la struttura del commissario Figliuolo ha mobilitato in tutto 22 squadre di vaccinazione dell’esercito, dispiegate, oltre che in Calabria, anche in Basilicata, Abruzzo, Molise, Marche, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Lombardia e Valle d’Aosta. Al 20 aprile, queste squadre hanno effettuato 9mila vaccinazioni.
Non solo montagne
La montagna presenta difficoltà particolari, ma le vaccinazioni a domicilio procedono a ritmo ridotto anche in pianura e nelle grandi città. Quando in Liguria la questione è arrivata sui media, la regione ha fornito le prime cifre della situazione. Gli ultrafragili nella regione sarebbero almeno 13mila. Le loro vaccinazioni, ha spiegato la regione, sono iniziate a metà aprile e sono nelle mani di 37 squadre che possono effettuare ciascuna dieci vaccini al giorno. Se questo ritmo sarà mantenuto, le vaccinazioni domiciliari termineranno entro la fine di maggio.
Il vicino Piemonte è in una situazione simile. I non trasportabili sopra gli 80 anni sono 35mila e le loro vaccinazioni sono iniziate all’inizio di marzo. Nelle prime settimane del piano, in tutta la città di Torino era disponibile una sola squadra di vaccinatori a domicilio. Due mesi dopo, sono circa 14mila gli ultrafragili che devono ancora ricevere la prima dose.
«Gli ultra ottantenni non vaccinati in Piemonte sono ormai quasi tutti non trasportabili che devono ricevere il vaccino a domicilio – dice la consigliera regionale Monica Canalis del Partito democratico – Ne mancano ancora 8.037 nella città di Torino e 1.238 nell’Asl TO4». La regione assicura che li vaccinerà entro la fine di maggio.
«L’altra nota dolente – prosegue Canalis – riguarda la bassa adesione dei medici di medicina generale alla campagna di vaccinazione: solo 1.012 su circa 3.000. La giunta regionale dovrebbe mettere in campo nuovi incentivi, non tanto economici, quanto logistici e organizzativi, per facilitare la partecipazione di questi medici alla campagna».
In Piemonte, e non solo, sono in ritardo anche le vaccinazioni a chi si prende cura degli ultrafragili. Gli assistenti sociosanitari che prestano assistenza domiciliare hanno iniziato a essere vaccinati soltanto due settimane fa, dice Giovanna Cumino, presidente della cooperativa sociale “Solidarietà”, mentre «rimangono ferme le vaccinazioni degli assistenti familiari, come il personale che opera nella città di Torino messo a disposizione dalle agenzie per il lavoro».
I medici di famiglia
I medici di medicina generale sono considerati da molti i candidati naturali per effettuare le vaccinazioni domiciliari. Non solo conoscono le esigenze dei loro pazienti e sono tra i pochi ad avere un quadro preciso di chi può muoversi e di chi invece deve essere raggiunto nella sua abitazione, ma spesso sono anche gli operatori sanitari a essere fisicamente più vicini ai loro pazienti.
Quasi tutte le regioni hanno sottoscritto accordi per delegare a loro almeno una parte delle vaccinazioni domiciliari. Alcune, come la Calabria, lo hanno fatto solo a metà aprile. In altre, come la Sardegna, gli accordi sono contestati dai medici, che minacciano di ritirare la loro partecipazione. In altre ancora, come il Piemonte, le adesioni dei medici di famiglia alla campagna restano relativamente basse.
«Non voglio difendere tutti i medici di famiglia – dice Silvestro Scotti, segretario generale della Federazione italiana dei medici di medicina generale – ma parliamoci chiaro: siamo stati messi nelle condizioni di effettuare queste vaccinazioni?».
Oltre ai ritardi delle regioni nel sottoscrivere gli accordi e gli altri problemi burocratici e organizzativi, Scotti e gli altri medici di medicina generale denunciano un problema ancora più profondo: in molte regioni hanno ricevuto troppi pochi vaccini. «Io ad esempio sono in Campania – dice – Nei prossimi giorni devo distribuire 15 seconde dosi, di cui la metà a pazienti domiciliari, ma non ho vaccini da dare. Sono tre giorni che i miei pazienti mi chiamano. In queste condizioni come facciamo a vaccinare?». In Puglia i medici di medicina generale hanno protestato il 24 aprile e poi di nuovo il primo maggio contro la scarsità di dosi che gli sono state assegnate. In provincia di Bari la situazione è così difficile che alcuni familiari hanno deciso di prendersi il rischio di portare i loro parenti ultrafragili negli hub pur di fare avere loro un vaccino.
Le priorità reali
La struttura del commissario straordinario al Covid ha detto a Domani che oltre ad aver inviato squadre di vaccinatori alle regioni che ne hanno fatto richiesta, ha usato ordinanze e comunicazioni ufficiali per sottolineare l’importanza di vaccinare per prime le categorie prioritarie, come gli ultrafragili.
Allo stesso tempo, però, il commissario Figliuolo ha sottolineato più volte l’importanza di vaccinare il più in fretta possibile. Alle regioni sono stati assegnati target di somministrazioni giornaliere e nelle ultime settimane di aprile c’è stato un crescendo di pressioni affinché si riuscisse a raggiungere, anche per un solo giorno, la quota di 500mila vaccinazioni in 24 ore.
Ma vaccinare in fretta e vaccinare per primi i più vulnerabili sono due obiettivi difficili da conciliare. Una squadra di vaccinatori, composta da almeno due persone, riesce a vaccinare una decina di persone in un giorno. Lo stesso gruppo può arrivare a vaccinarne dieci volte tante in un centro vaccinale. Distogliere risorse e personale dai grandi hub per destinarle alle persone che non possono muoversi da casa significa correre il rischio di rallentare le somministrazioni, di mancare gli obiettivi e di scendere nelle classifiche regionali che i giornali riprendono quotidianamente. Non stupisce che molte regioni preferiscano assegnare personale e vaccini ai grandi centri e facciano pressioni affinché le vaccinazioni siano aperte a persone sempre più giovani. Il risultato è che le vaccinazioni hanno accelerato, i traguardi sono stati tagliati, ma migliaia di persone tra le più fragili in assoluto restano ancora in attesa del loro vaccino.
Aggiornamento: lo zio di Claudia Tavani ha ricevuto una prima somministrazione di vaccino nel pomeriggio di venerdì.
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