In Erasmus ci vanno anche i calciatori. Per imparare un’altra lingua (del campo) e per diventare grandi. Non scelgono mete esotiche. La città fa poca differenza. E tante volte pure la squadra. Matteo Gabbia era solo un prodotto del settore giovanile del Milan, uno dei tanti. Però se vuoi emergere, bro’, devi farti spazio, sgomitare, cercarti un posto tutto tuo. Gabbia aveva provato con la Lucchese in Serie C. Ma qui siamo a this is Italy: più che coltivare sogni speriamo sempre nei miracoli. Una chiamata, in effetti, è arrivata. Dal cielo di Spagna. Matteo ha raccontato che «il giorno in cui siamo partiti per la tournée in America mi chiamò il mio agente, mi disse di non andare perché aveva già fatto tutto con il Villarreal». Restò due giorni negli States, poi andò incontro al suo destino. Che forse si è compiuto a San Siro con le sue luci, il derby, una prestazione di valore, un gol, e adesso tutti a chiamarlo predestinato, campione, eroe. In Italia finisce sempre così. “In Spagna volevo mettermi in gioco anche in un paese e in un campionato diverso. È stato molto bello. Sono contento di com’è andata. E anche di essere tornato». 

Non è più una stravaganza

Fino a qualche anno fa sembrava una moda, una scelta estemporanea o economicamente irrinunciabile (da Zola a Di Matteo, da Gattuso a Marco Negri passando per Balotelli), una stravaganza: andare all’estero per giocare a pallone, ma perché? Ora è diventata un’esigenza. I giovani italiani, anche i calciatori, lo hanno capito: bisogna andare via di casa, entrare nel mondo, scoprire che è grande, diversificato, complesso. E quindi bello. La Serie A non è tutto. Basta con le semplificazioni. Lo aveva detto anche il ct Luciano Spalletti, disperso in un labirinto di critiche dopo l’Europeo e tornato sulla strada maestra per il successo sulla Francia. Lucio parlò, anzi spronò. Spinse i giovani a cercare un posto nel mondo. Il calcio in questo c’entra fino a un certo punto. «La difficoltà in Italia è che nessun giovane, dopo la Primavera, va a farsi un po' di carattere all'estero, senza scendere di categoria».

Qui le strade sono due: la Primavera o le categorie inferiori. «O si accomodano tranquilli sul divano della panchina, col procuratore tranquillo che può andare a fare gli aperitivi. Stanno là, nella camerina, pensano all'allenamento del giorno dopo». Gabbia è solo l’ultimo della stirpe di questi calciatori dal bagaglio leggero. Alcuni lo hanno fatto prima di lui. Per caso o per necessità.

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Il caso Calafiori

Riccardo Calafiori, per esempio, all’estero c’era andato per ricostruirsi. Aveva scelto la Svizzera, ai confini della realtà calcistica. Si portava dietro delusioni e dolore, non tutte dettate dagli infortuni. Al Basilea aveva ritrovato la sicurezza in sé stesso prima di tornare in Italia (al Bologna) e prendersi quello che era sua: la scena in difesa. Si era trovato talmente bene che all’estero ci è pure tornato (all’Arsenal). Una ricerca del Cies ha mostrato che la Nazionale italiana dell’ultimo Europeo aveva solo il 12% di giocatori impiegati all’estero. La Spagna il 27%, l’Albania il 100%. Un dato ristretto. Lo scenario è più ampio. Il numero dei calciatori che vogliono provare a giocare da un’altra parte è sempre più alto. E del resto come potrebbe essere diverso? I calciatori sono gli stessi ragazzi della GenZ, dei social, che guardano il mondo da un oblò formato smartphone e che l’estero è a portata di viaggio. Dai figli dell’interrail a quelli dell’Erasmus, oggi parliamo di una generazione globalizzata.

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Giovani italiani all’estero

I numeri degli studenti che vanno all’estero con il programma Erasmus sono cresciuti tantissimo negli ultimi anni: si è tornati alla media di quasi 20 mila l’anno (oltre 720 mila in 35 anni). E persino gli insegnanti che vanno via sono di più: oltre 2.300 nel 2023. Perché dovrebbe essere diverso per un giovane calciatore? Cesare Casadei al Chelsea, Andrea Natali (già al Barcellona, figlio del Cesare ex giocatore di Udinese, Torino, Bologna e Fiorentina tra le altre) al Bayer Leverkusen e, in attesa di ufficialità, Samuele Inacio Pia (figlio dell’ex attaccante del Napoli) dall’Atalanta al Borussia Dortmund. Lorenzo Lucca aveva scelto l’Ajax, poi è tornato in Italia, all’Udinese. Si tenta, si sbaglia, magari si inciampa, ci si rialza. In Eredivisie erano andati anche Gaetano Oristanio (Volendam, ora al Venezia) e Luciano Valente (Groningen, è ancora lì), tutti nell’orbita delle nazionali giovanili italiane. Gianluca Scamacca era andato al Psv, poi è anche lui è rientrato. «Sono il primo italiano della storia del Psv Eindhoven. E qui mi piace tutto, l’ambiente, le strutture, gli allenamenti. Mi allenerò con Van Nistelrooy: se sarò così bravo da interessare di nuovo alla Roma scorderanno che sono andato via. Ma non chiamatemi mercenario», aveva detto al momento del distacco.

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Ma quale fuga, si chiama crescita

La stampa italiana ha sempre definito questi trasferimenti una fuga, liquidandoli come un modo di scappare. Trovando un parallelo con i cervelli, che all’estero ci vanno per valorizzare il loro percorso di studi. Per i calciatori è un modo di aggiornarsi. L’Italia che non partecipa ai Mondiali da due edizioni, che esce dall’Europeo troppo in fretta, evidentemente ha bisogno di guardare altrove, di sapere cosa fanno gli altri, di acquisire valore mettendosi alla prova come uomini prima che come giocatori. «All’estero hai la tua stanzina, non hai la playstation per giocare, devi imparare una lingua, confrontarti con una cultura diversa, pensare all’allenamento del giorno dopo e portare a casa il risultato», ha detto ancora Spalletti. Bisogna uscire dal recinto. L’Italia è un punto nel mondo. Ma ce ne sono altri. E i giovani calciatori se ne sono accorti. Vogliono aggiornarsi, provare nuove sfide, sentirsi più grandi. Come negli altri sport, in cui la tendenza è cercare di fare esperienza altrove. Nel basket (tutti i giocatori sognano di andare un giorno in Nba), nella pallavolo (tra pochi mesi partirà la nuova Lega femminile negli Usa e allenatori e giocatrici sono andati lì), nell’atletica, nei tuffi, nel nuoto. Non è più solo l’andare via di casa, è cambiare aria, cultura, visione. In una parola, crescere.

Casa è dove sei felice

Ognuno sceglie la destinazione che preferisce. Sandro Tonali lo ha fatto con la Premier (al Newcastle). Un campionato, quello inglese, che attira giocatori come il miele. All’estero ha voluto provare un’esperienza pure Nicolò Zaniolo (poi è rientrato, all’Atalanta, anche se in prestito dal Galatasaray), Gigio Donnarumma sono anni che gioca nel Psg. In Turchia (in prestito al Besiktas) c’è Cher Ndour, classe 2004 con un passato nel prolifico settore giovanile dell'Atalanta ed ex (anche) del Benfica, che è stato tra i titolari dell'Europeo Under 19 vinto dall'Italia a luglio. Destiny Udogie è stato comprato dal Tottenham nell'estate del 2022 per 18 milioni. Wilfried Gnonto gioca in Championship, sempre al Leeds. Ma altri, nel corso degli ultimi anni, hanno scelto diversamente. Cina, Indonesia, Austria, Germania. Ogni luogo è buono. Perché, come dice quel famoso proverbio tibetano, là dove sei felice, sei a casa. E dopo un po’ puoi sempre tornare. Diverso da prima, quasi sempre migliore.

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