- Roberta (nome di fantasia), 54 anni, ha fatto parte della Comunità Loyola, in Slovenia, dal 1990 al 2000. Dalla sua testimonianza emerge la sistematicità con cui il noto sacerdote gesuita, vicino a papa Francesco e oggi al centro di una polemica durissima, circuiva le giovani suore.
- Attraverso il plagio e l'abuso spirituale otteneva favori sessuali, nell'indifferenza dei suoi superiori. Roberta conferma, come le due consorelle già intervistate da Domani, a quali umiliazioni venissero esposte le donne che riuscivano a respingerlo.
- Dopo essere scappata dalla comunità, sono andata con mia madre dal responsabile per le congregazioni religiose della mia città per raccontare quel che succedeva nella Comunità Loyola. Con la scusa che non era di pertinenza della sua diocesi, non volle nemmeno ascoltarci.
«In una mostra pubblica di Marko Rupnik a Maribor, in Slovenia, era esposto anche un quadro che ritraeva una donna poco vestita, in atteggiamento che sembrava sensuale. Questa cosa mi causò un certo sconcerto: si sapeva perfino chi di noi gli aveva fatto da modella, come se fosse una cosa normale».
Roberta (nome di fantasia), 54 anni, ha fatto parte della Comunità Loyola, in Slovenia, dal 1990 al 2000. Dalla sua testimonianza emerge la sistematicità con cui il noto sacerdote gesuita, vicino a papa Francesco e oggi al centro di una polemica durissima, circuiva le giovani suore. Attraverso il plagio e l'abuso spirituale otteneva favori sessuali, nell'indifferenza dei suoi superiori.
Roberta conferma, come le due consorelle già intervistate da Domani, a quali umiliazioni venissero esposte le donne che lo respingevano. La comunità stessa era per Rupnik una riserva di caccia: molte ex religiose ricordano le pressioni ricevute dal gesuita per farle entrare nella “sua” congregazione. L’abuso sessuale è soltanto un aspetto dell’attitudine manipolatoria di Rupnik, che si estende ad ogni aspetto della vita delle prede. Roberta è riuscita a sottrarsi ai suoi approcci sessuali ma ha dovuto fare i conti con violenze psicologiche e spirituali.
Come ha incontrato Marko Rupnik?
Nel 1990 studiavo storia dell'arte all'università e una compagna di studi mi aveva invitato a Gorizia, a una mostra di questo gesuita. Ci andai e lo conobbi in quell'occasione: ero alla ricerca di un approfondimento spirituale e quei quadri mi sembrarono significativi; inoltre lui mi notò e mi coprì di complimenti. Aveva un certo carisma, mentre io ero molto insicura.
Accettai il suo invito a fare gli esercizi spirituali ignaziani e in pochi mesi lui, mostrando una platonica infatuazione per me, riuscì a manipolare la mia vocazione religiosa fino al punto da costringermi a entrare nella Comunità Loyola, che non avevo mai sentito nominare. Io ero orientata piuttosto verso un ordine tradizionale, come le suore francescane e le orsoline, ma Rupnik diceva che non andavano bene per me, e che ero destinata ad altro.
In una messa a Stella Matutina, che allora era la residenza dei gesuiti a Gorizia, mi fece fare un giuramento solenne davanti a Dio che sarei entrata nella Comunità Loyola, un voto che per me doveva avere valore di voto eterno indissolubile. Io subìi e accettai, e da lì sono cominciati i miei dieci anni in Comunità, dolorosi e assurdi: un sacrificio inutile, sterile, senza frutto.
Qual era l'atteggiamento di Rupnik verso le suore?
Era apertamente ambiguo, per certi sguardi che ti rivolgeva e per gli apprezzamenti che non ti aspetteresti da un prete. Un giorno, ero ancora una novizia, mi ha messo le mani sul sedere, commentandone compiaciuto la forma.
Capivo che era sbagliato, ma lui mi confondeva perché ammantava tutto di un'aura spirituale e giustificava il suo interessarsi apertamente alle forme femminili con il suo essere artista e, per di più, un artista a servizio della gloria di Dio. Ci ripeteva sempre la retorica del valore spirituale della femminilità, che lui esaltava anche negli aspetti propriamente estetici: per esempio, ricordo una sua “lezione” sull'importanza del colore bianco nella biancheria intima femminile e il suo invito a indossare camicette bianche un po' trasparenti che lasciassero intravvedere il reggiseno, come segno sublime di purezza e bellezza spirituale.
Inoltre, sebbene per allungare le mani avesse aspettato che fossimo soli, in generale il suo atteggiamento ambiguo avveniva alla luce del sole ed era esperienza normale in comunità, come presumibilmente altrove.
Rupnik quindi non agiva di nascosto?
Il suo stile comunicativo seduttivo e manipolatorio era sotto gli occhi di tutti. Ricordo anche che una volta partecipammo all'inaugurazione di una sua mostra a Maribor, in Slovenia, in cui, oltre a grandi volti di Cristo, c'erano vari quadri a tema femminile.
Uno in particolare ritraeva una donna poco vestita, in un atteggiamento che sembrava sensuale. Questa cosa mi causò un certo sconcerto, ma apparentemente passò sotto traccia in comunità: si sapeva perfino chi di noi gli aveva fatto da modella; se Ivanka, la superiora, ebbe qualcosa da ridire, io non l'ho mai saputo. In quel momento pensai chiaramente che qualcosa non andava, ma mi dissi che, se tutti la consideravano una cosa normale, a sbagliare dovevo essere io.
Questo era il contesto in cui vivevamo. Rupnik poteva muoversi indisturbato, e infatti ora è evidente che per lunghi anni nessuno lo ha fermato.
Rupnik tentò approcci sessuali con lei?
Una volta. Dato che non riuscivo ad adattarmi alla comunità, ad un certo punto mi trasferirono a Roma e mi mandarono in “cura” da Rupnik. In quel periodo lui mi aveva imposto di telefonargli ogni giorno, cosa che mi metteva in grande imbarazzo, perché in quelle telefonate lui diceva che io ero molto importante per lui, ma chiaramente non era vero.
Inoltre dovevo recarmi periodicamente nel suo studio al Centro Aletti, dove lui mi sottoponeva a una specie di terapia psicologica: mi mostrava delle fotografie e io dovevo dire quello che mi facevano venire in mente: lui commentava, anche in un modo che mi feriva, facendomi piangere. Dentro di me pensavo che quella era una procedura improvvisata e che non era qualificato per farlo, ma lui era considerato da tutti nel nostro ambiente un genio, un profeta e un taumaturgo, per cui tenni per me quei dubbi.
Al secondo o terzo appuntamento per questa presunta terapia lui volle baciarmi sulle labbra, dicendo che quello era «il bacio di guarigione del Signore». Reagii dicendogli che non volevo più proseguire la “cura” perché non ero sicura che lui sarebbe riuscito a fermarsi.
E dopo che cosa successe?
Non ne parlai con nessuno ma lui si indispettì e questo mio rifiuto acuì per un certo periodo la riprovazione da parte sua e della comunità, perché adesso ufficialmente, oltre che “poco spirituale”, ero anche una che non portava a termine gli impegni presi e che lasciava le cose a metà.
Dopo quella volta, però, non ci provò più con me. Anche se non ho subito molestie sessuali da parte di Rupnik, ho però sperimentato gravi forme di abuso psicologico e spirituale da parte sua e della comunità, perché si sono intromessi nel mio rapporto con Dio, distorcendolo e distruggendo in me ogni fiducia. Questa è una ferita ancora aperta, perché la mia vocazione religiosa era sincera.
Sapeva che aveva abusato di alcune sue consorelle?
No, non sospettavo minimamente che la situazione fosse così grave. Anche a proposito dell'allontanamento di Rupnik dalla comunità non ricordo alcuna ricerca di chiarimento da parte di Ivanka o delle sue fedelissime. Ci avevano detto che era una questione di difesa del carisma.
Giravano voci che era successo qualcosa fra “Anna” e padre Marko, ma la chiave di lettura della comunità era che ciò accadeva per una qualche sua colpa. L'unica a essere trattata con riprovazione fu “Anna”, pubblicamente bollata dalla superiora come “infedele” e per questo obbligata per punizione a fare la cuoca nella casa a Mengeš, in Slovenia, per tutta la vita.
Lei era visibilmente molto sofferente: quando riuscì a scappare dalla comunità e ci si rese conto che era sparita, una delle sorelle, che in seguito è diventata una colonna del Centro Aletti, ci mandò a cercarla dappertutto, «anche sotto i letti», lasciando intendere che avremmo potuto trovarla senza vita, come se l'ipotesi del suo suicidio fosse prevedibile e quindi razionalmente accettabile.
Trovai questo fatto di una crudezza inaudita. Lasciare la comunità era considerato il male assoluto, peggio della morte.
Perché lei decise di andarsene?
Dopo dieci anni in comunità ero ammalata nel corpo, annientata nella psiche e ferita nello spirito. I miei dubbi venivano bollati da Ivanka come opposizione a Dio e intorno a me avvertivo solo riprovazione e condanna.
Vivevamo in un clima di terrore, in cui non veniva controllato solo quello che facevi ma anche quello che pensavi. Bastava che non avessi fatto bene il letto perché la superiora ti dicesse che la tua anima non era pulita. Ero sottoposta a un costante giudizio privo di benevolenza e ho interiorizzato il disprezzo che avvertivo nei miei confronti come il disprezzo di Dio verso di me.
Alla fine sono scappata e sono tornata dalla mia famiglia; grazie alle cure di mia madre sono riuscita a riprendermi e a ricostruirmi una vita. Non era affatto una cosa scontata, perché la comunità era rigorosa e determinata nel recidere il legame con la famiglia di origine e nel mio caso lo aveva fatto con mano particolarmente pesante. Oggi sono sposata e ho un lavoro ma il percorso di recupero è stato lungo e doloroso.
Ha provato a denunciare le violenze psicologiche che ha subito?
Dopo essere tornata a casa, sono andata con mia madre dal responsabile per le congregazioni religiose della mia città per raccontare quel che succedeva nella Comunità Loyola. Con la scusa che non era di pertinenza della sua diocesi, non volle nemmeno ascoltarci.
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