Parla uno dei primi "diavoli" della bassa modenese, coinvolto a fine anni Novanta in un'inchiesta su un presunto giro di pedofilia e satanismo. Nel 1997, i carabinieri entrano in casa sua, la perquisiscono e poi gli portano via i figli
«Eravamo in una stanza del commissario, al primo piano. Quando siamo scesi, i nostri figli non c’erano più». A parlare, è Federico Scotta, 46 anni, uno dei primi genitori finiti in carcere con l’accusa di essere un pedofilo, nell’ambito del caso dei cosiddetti «Diavoli della Bassa modenese», una vicenda che tenne banco a fine anni Novanta nei paesi di Mirandola e Massa Finalese.
Qui, tra febbraio del 1997 e novembre del 1998, 16 bambini di età compresa tra gli zero e i 12 anni furono allontanati dalle loro famiglie, accusate di far parte di una setta di pedofili e satanisti, che abusava di loro, torturandoli fisicamente e psicologicamente.
Da questa vicenda sono nati cinque processi, che hanno portato più di venti persone sul banco degli imputati: 24 assoluzioni e 15 condanne in totale. Alcuni genitori e parenti non hanno mai visto la fine di questa storia, che si è lasciata dietro tre morti e che è stata riportata agli onori della cronaca nel 2017, dopo anni e anni di oblio. A trovarla e ricostruirla è stato Pablo Trincia, con l’aiuto della collega Alessia Rafanelli, attraverso un podcast uscito poi su La Repubblica. Oggi, quel podcast è diventato una docu-serie di cinque episodi, disponibile sulla piattaforma streaming Amazon Prime.
I bambini di allora hanno una vita in nuove famiglie, oggi sono adulti, hanno tutti tra i 20 e i 30 anni. Nonostante i genitori continuino a proclamarsi innocenti e chiedono loro di poterli rivedere, la maggior parte si è negato, decidendo di chiudere i ponti con quel passato.
I primi diavoli
Uno di quei “diavoli”, insieme a sua moglie Kaenphet, di origini thailandesi, era proprio Federico. La storia ha inizio il 7 luglio 1997, il giorno non ha ancora visto la luce quando bussano alla porta. Sono i carabinieri. «Vennero a casa per cercare materiale pedopornografico. La perquisizione diede esito negativo e al termine ci dissero andare in commissariato per notificarci l’atto di avvenuta perquisizione. Erano le otto del mattino, dopo circa un’ora di attesa ci dissero di salire al piano superiore». L’atto da notificare in realtà era un altro: il Tribunale dei minori, infatti, aveva disposto l’allontanamento «del tutto temporaneo» e non definitivo dei bambini.
Federico e Kaenphet sono confusi, non riescono a darsi una spiegazione. E non l’avranno prima di settembre. Nel frattempo, Elisa, la maggiore, di 3 anni, e Nik, il fratellino più piccolo, di soli 6 mesi, spariscono.
Un anno dopo l’allontanamento dai primi due, Kaempet dà alla luce un’altra bambina, Stella, ma il responsabile dei servizi sociali, la sottrarrà ai genitori senza nemmeno fargliela vedere.
«Mi dissero di aspettare in una stanzetta, da solo. Mentre la mia ex moglie venne portata in reparto perché aveva subito un cesareo. Dopo, mi concessero di andare a vedere come stava. Lei mi chiedeva della bambina». Federico non aveva la forza di darle quella notizia. Kaenphet ci arrivò da sola: «Ce l’hanno portata via?», chiede al marito, «Purtroppo, sì», risponde lui.
Inizia un incubo che durerà oltre vent’anni. Un incubo fatto di processi, condanne, assoluzioni in appello e una costante: la mancanza dei propri bambini. Federico, al termine del processo conosciuto come «Pedofili 1», il primo di una lunga serie, viene condannato a 11 anni di carcere. «Avevo 24 anni, ero molto giovane, è stato difficile. Perché con un’accusa di pedofilia, sono gli stessi detenuti a giudicarti. Ma anche loro mi giudicarono innocente: è il solo motivo per cui sono ancora qui a parlarne. L’unico pensiero che mi dava forza erano i miei figli», ricorda Federico.
Anni dopo, la sentenza verrà ribaltata in appello. È in quel momento che la speranza inizia a farsi viva. Forse li riabbracceremo, pensano. Ma non sarà così.
Il bambino zero
Il titolo è Veleno «perché lì per lì non te ne accorgi, ma poi…», dice Trincia all’inizio della prima puntata del podcast. La storia è clamorosa e attira l’attenzione del regista inglese Hugo Berkeley, che contatta Trincia e, uno dopo l’altro, tutti i protagonisti della storia. Fino ad arrivare dove il primo non era riuscito: i bambini. Proprio gli ex bambini hanno messo su un comitato chiamato “Voci vere”, che raccoglie l’adesione di buona parte di loro e delle famiglie affidatarie.
La storia, come lo stesso Trincia racconta nel primo episodio di Veleno, ha inizio in una casa gialla di Massa Finalese. Lì, vive la famiglia Galliera. Madre, padre, due figli e l’ultimo arrivato, Davide, di 6 anni. Sarà lui, come lo chiama il giornalista, «il bambino zero di quel virus».
Le condizioni della famiglia non sono delle migliori. Il capo famiglia, Romano, non ha un lavoro stabile, si arrangia come può per sfamare cinque bocche. Ma il più piccolo dei Galliera è sofferente: non può andare a dormire in macchina con i fratelli maggiori. Così, decidono di affidarlo ai vicini, Oddina e Silvio.
Davide cambia visibilmente. Sorride, gioca, è vivace come dovrebbe essere per tutti i bambini della sua età. Il 25 dicembre 1997, le due famiglie trascorrono insieme il Natale. Nessuno di loro sa, che all’indomani, Davide gli verrà portato via per sempre.
Il bambino, biondo, magro, con gli occhiali tondi e gialli, aveva raccontato che la sua famiglia biologica, il fratello Ivan e il papà Romano, in particolare, avevano abusato di lui. La psicologa che lo segue è Valeria Donati. Davide non si ferma. Non solo in casa, ma anche fuori: i suoi lo vendono e gli fanno scattare anche delle foto in cambio di soldi. Poi si passa ai cimiteri, i bambini uccisi (ne avrebbe ucciso tre), i riti satanici. Davide allarga il cerchio, coinvolge altre famiglie, altri bambini. I carabinieri iniziano a smantellare la rete di pedofili. I primi nomi fatti dal piccolo Galliera sono quelli di Federico e dei suoi bambini, e quello della vicina di Scotta, Francesca Ederoclite e di sua figlia Marta. Kaenphet non viene mai nominata.
La prima vittima di questa storia, è proprio Francesca che, dopo tre mesi dall’allontanamento della sua unica figlia e da quelle accuse, si suicida lanciandosi dal balcone di casa. «Eravamo ai domiciliari. Un giorno, uscì sul televideo l’esito delle consulenze mediche fatte ai noi figli e a Marta. Diceva che erano stati accertati pesantissimi abusi che avrebbero portato serie difficoltà in futuro qualora queste ragazze avessero deciso di avere dei figli», racconta ancora Federico.
«Francesca era sola in casa, come me ai domiciliari. Una domenica di settembre prese il telefono, chiamò a casa e disse: vi ho voluto bene, un giorno se rivedrete Marta ditele che le ho sempre voluto bene, ma non ce la faccio ad andare avanti. Questa accusa mi sta distruggendo perché sono sola e senza di lei. Dissi a mia moglie di chiamare subito le forze dell’ordine. Poche ore dopo ci dissero che si era buttata di sotto ed era morta».
Un calvario lungo un ventennio
Ma torniamo a Scotta. Dopo l’uscita di Veleno (il podcast), a distanza di vent’anni, le cose iniziano a cambiare.
Marta contatta Trincia: «Ho inventato tutto. Era la psicologa a farmi dire ciò che voleva lei». L’accusa crolla, anche se, sono solo tre, gli ex bambini che dicono di avere dei dubbi sul proprio passato e che ammettono di aver inventato quelle storie. Altri restano fermi sulla loro posizione e continuano ad avere quei ricordi nitidi nella loro memoria.
Sarà proprio la dichiarazione di Marta a scagionare definitivamente Federico e Kaenphet: «Erano gli unici adulti che conoscevo, perché erano amici della mamma, quindi ho detto i loro nomi».
Quando la psicologa le dice che la mamma è morta, Marta inizia infatti a parlare. Fino a quel momento, non una parola, né sugli abusi, né sui cimiteri. Nelle registrazioni dei colloqui tra Valeria Donati e Marta, si sente la prima chiedere se per caso la mamma non fosse sempre stata buona con lei, se fosse vero che le avesse fatto del male e se lei provasse rabbia nei suoi confronti. Marta annuisce, visibilmente perplessa. Parla. Racconta degli incontri nei cimiteri, parla anche lei, come Davide, dei bambini uccisi e seppelliti nel cimitero di Massa.
Eppure, dalle indagini, non è mai emerso nulla: non un cadavere, non una traccia di sangue, non un centimetro di terra spostato nelle città dei morti. «I bambini hanno sempre ragione», ripetevano gli assistenti sociali. Quando uno dei bambini interrogati dirà che i cadaveri dei bambini sacrificati sono stati buttati anche nel fiume, il comune spenderà 90 milioni di lire per le ricerche: non trovarono mai nulla.
«Mi farebbe molto piacere incontrare Marta, perché sono l’ultima persona che ha visto sua mamma, quasi fino a quando ha fatto l’estremo gesto. Sono l’unica persona che sa quanto Francesca parlasse di lei, sempre», dice Federico, ormai in lacrime.
«Vorrei dirle grazie, perché finalmente ha tirato fuori la verità, per il suo coraggio», poi, rivolgendosi direttamente a lei: «Devi cercare di andare avanti, perché la vita va avanti. Sei giovane e intelligente e sono sicuro che nella vita pian pianino si può andare avanti cercando di farsi forza, anche se non è facile».
Il calvario di Federico Scotta è lungo 23 anni. Poi, è Nik, ormai 24enne e cresciuto all’oscuro della sua vera storia, a contattarlo. È dicembre 2020. Nel frattempo, il padre ha perso la casa, il lavoro, vive in roulotte e ha divorziato da Kaenphet.
«Quando Nik è venuto a bussare alla porta della mia roulotte ho provato un’emozione indescrivibile. Abbiamo prima parlato per messaggi, su whastapp, poi per telefono, finché non è venuto da me. Ci siamo abbracciati, e e risentire il suo profumo, risentire il suo calore è stato un momento meraviglioso», dice commosso.
A raccontare delle sue origini a Nik, è stata Elisa, sua sorella maggiore, con la quale Federico, invece, non ha contatti. Nik a sua volta, ha contattato Stella, la piccola di casa. «So che le ha scritto su Facebook, ma poi, forse presa dalla paura, giustamente, l’ha bloccato. Io spero che loro tre possano ricongiungersi. Almeno loro, perché quando si dividono dei fratelli, si spezza un legame molto importante», spiega Federico.
Su ciò che invece si aspetta per sé stesso, dice di non chiedere molto. «Vorrei solo poter fare parte della loro vita. Non mi importa che mi chiamino papà. I genitori sono coloro che ti crescono, come ho detto anche a Nik. Ma mi piacerebbe conoscerli, sapere come stanno, cosa fanno. Coi i loro tempi, senza invadere i loro spazi».
Federico, attualmente, sostenuto questa volta anche dal figlio Nik, attende il verdetto della Cassazione di Roma su una richiesta di revisione della sentenza emessa a Modena vent’anni fa. Una richiesta che, nel 2017, la Corte d’appello di Ancona non accolse.
«Se le condanne verranno annullate, significa che la giustizia avrà vinto. Queste storie non devo accadere mai più».
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