- Questa è la rubrica Vino sul Divano. Ogni mese, nell’inserto Cibo, esploriamo le tendenze dell’enologia, guardando soprattutto al di là dei confini italiani, perché – se è vero che il nostro paese possiede la più grande biodiversità di vitigni autoctoni – è importante smettere di guardarsi l’ombelico e vedere cosa succede altrove.
- In Sudafrica una certificazione collettiva che si chiama Old Vine Project permette a produttori anche con approcci molto diversi tra loro di applicare un bollino su quelle bottiglie prodotte a partire da vigne più vecchie di 35 anni.
- Un approccio particolarmente interessante non solo per preservare gli appezzamenti più vecchi, quindi meno produttivi, ma anche per promuovere il proprio lavoro in maniera particolarmente efficace. In Italia non esiste niente di simile.
Jamie Goode, uno dei più brillanti wine writer anglosassoni, ha recentemente scritto un lungo elogio sulla testata sudafricana Winemag dell’Old Vine Project. Si tratta di una certificazione, nata nel 2018 e che può essere indicata in etichetta, per quei vini che sono stati prodotti nel paese a partire da vigne di almeno 35 anni, piantate quindi prima del 1987.
Un progetto che si inserisce in un contesto che vede la superficie vitata del Sudafrica diminuire, anno dopo anno, e che in questo modo riesce a dare valore a quei vigneti che, in quanto più vecchi, sono meno produttivi. Appezzamenti che se coltivati con attenzione riescono a dare frutti in grado di portare a vini di maggior interesse, di maggiore qualità: una certificazione che incentiva quindi i produttori a non mescolare queste specifiche uve con quelle di vigne più giovani e a vinificarle singolarmente, dedicando loro una o più etichette.
Questione d’età
Due le domande che l’autore si pone. È legittimo fissare l’asticella a 35 anni per definire una vite come vecchia, vieille vigne come viene chiamata in Francia? E ancora: si tratta di un efficace strumento di marketing? È impossibile dire con precisione in che momento un vigneto diventi “vecchio”, quello che però sappiamo con certezza è che le viti più giovani, almeno per i primi 10 anni, tendono a produrre vini giocati soprattutto sul frutto, che parlano la lingua del varietale, del tipo di uva da cui nascono.
Solo dopo questo primo lasso di tempo entrano nella loro fase più interessante, quella che porta non solo a vini di maggior qualità ma anche a vini in grado di parlare con maggior trasporto dello specifico luogo in cui sono stati prodotti. Da qui l’idea che il limite minimo di 35 anni possa essere considerato un buon compromesso tra qualità e quantità, essendo più rari in Sudafrica vigneti con un’età maggiore di 50 anni.
Piccoli produttori
Per quello che riguarda il marketing questa certificazione magari non serve alle cantine più famose e affermate, ha però aiutato produttori più piccoli e meno conosciuti nel migliorare la collocazione commerciale di almeno uno dei loro vini: attraverso l’uso di questo bollino, una sorta di sigillo, non solo riescono a veicolare una specifica informazione virtuosa ai loro clienti ma anche a posizionare un vino come premium senza dover ricorrere a menzioni come Selezione o Riserva, molto diffuse e quindi meno caratterizzanti.
In Italia non esiste niente di simile, almeno a livello nazionale. La dicitura “vigna vecchia” è per quanto abbastanza diffusa responsabilità del solo produttore che, utilizzandola, stringe un patto di fiducia con i propri clienti. Ci sono però alcune cantine che nel corso del tempo si sono distinte per il sistematico recupero di vecchi appezzamenti che sarebbero altrimenti finiti in un desolante stato di abbandono.
La più nota è Cantina Giardino, in Irpinia. Antonio Di Gruttola ha iniziato nel 2003 a vinificare i frutti provenienti da soli vigneti molto vecchi, in totale contrasto con la tendenza di allora che vedeva le cantine più grandi e più importanti estirpare le vigne esistenti per fare spazio a sistemi di allevamento più produttivi come la spalliera e al tempo stesso a piantare viti frutto di una selezione clonale, perdendo così parte della biodiversità presente nel territorio di Avellino. Una zona che è stata investita dalla fillossera, l’insetto che all’inizio del secolo scorso ha decimato la viticoltura europea, intorno al 1920 e le cui vigne più vecchie avevano allora almeno 80 anni di età (con notevoli eccezioni, piante che non erano state attaccate e quindi ultracentenarie).
È in questo contesto che Antonio è riuscito a selezionare appezzamenti anche molto piccoli e molto vecchi di greco, di fiano, di coda di volpe bianca e rossa e di aglianico, le varietà più tipiche della zona non di rado allevate a starseta, la tipica struttura irpina che vedeva le viti maritate con altre piante da frutto.
Non solo però, da nord a sud diverse altre piccole realtà in questi anni hanno iniziato un lento lavoro di recupero di vigneti tanto vecchi quanto significativi. Tra queste Monte di Grazia, sempre in Campania, nel salernitano, Rarefratte a Breganze, in provincia di Vicenza, Orto Tellinum in Valtellina.
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