- «Uno dei fattori che contribuisce a innescare il meccanismo della violenza è l’idea, stereotipata e tossica, che si ha delle relazioni di coppia. Le si percepisce come esperienze dotate di un potere trasformativo e salvifico, capaci di plasmare in modo totalizzante la propria vita»
- Il sistema sociale, dunque, se vuole difendere le vittime di violenza di genere deve salvaguardare la loro libertà adottando politiche che incidano su quella di chi agisce violenza
- «L’altro non è una persona, ma un oggetto magico attraverso cui raggiungere l’affermazione personale. Quando viene a mancare, finisce il mondo. Il nostro compito è far comprendere ai ragazzi che non finisce il modo, ma un mondo, quello della singola relazione»
Paolo, nome di fantasia, ha appena terminato l’università. È fidanzato con una sua coetanea, che chiameremo Barbara. Progettano un futuro insieme che contempla un matrimonio nell’imminente e tutto gli fa presagire che sarà per sempre. Ha investito tutto sé stesso in quella relazione e la sua fidanzata è il suo mondo. Non può andare diversamente. Eppure la realtà sconfessa le promesse che si erano fatti: lei lo lascia. Il santo a cui ha votato la sua esistenza, lo abbandona. Paolo, frustrato e arrabbiato, inizia a chiamare ripetutamente Barbara, la incolpa del fatto di averlo lasciato e di negarsi di fronte alle sue telefonate. Lei, esasperata, lo blocca; lui più volte tenta di uccidersi.
A raccontare questa storia è lo psicoterapeuta Andrea Bernetti che da anni si occupa di violenza all’interno delle relazioni e collabora con il Cam, il Centro di ascolto uomini maltrattanti, da cui, nel 2021, ha fatto nascere a Roma il Centro Prima, dedicato alla prevenzione della violenza di genere. È lì che ha conosciuto Paolo, arrivato al centro in modo spontaneo quando ha sentito che se avesse continuato a percorre la strada delle telefonate continue e delle recriminazioni sarebbe stato capace di commettere violenza.
I giovani e la violenza di genere
Paolo è solo uno dei tanti uomini, giovani e meno giovani, con cui il dottor Bernetti è venuto in contatto negli anni. «Uno dei fattori che contribuisce a innescare il meccanismo della violenza è l’idea, stereotipata e tossica, che si ha delle relazioni di coppia. Le si percepisce come esperienze dotate di un potere trasformativo e salvifico, capaci di plasmare in modo totalizzante la propria vita. Quando questo idillio si rompe, si sente di aver perso tutto», dice lo psicoterapeuta.
Se ci si accorge in tempo della pericolosità delle proprie azioni, si fa quello che ha fatto Paolo: ci si rivolge a un professionista e alle strutture come il Centro Prima. Altrimenti si può arrivare alla violenza fisica e nei casi più estremi al femminicidio. «La storia di Paolo è profondamente indicativa delle dinamiche che si instaurano in un rapporto malsano. Lui ha ucciso “solo” idealmente Barbara con la sua azione di stalking e poi ha tentato di togliersi la vita. Ma la realtà ci parla di un gran numero di omicidi-suicidi portati a termine», spiega Bernetti.
Il focus è sugli uomini
Secondo i dati Istat il 13,9 per cento delle donne ha subìto violenza dal proprio partner. «Ciò significa che all’incirca una donna e mezza su dieci subisce violenza nella coppia, che a sua volta equivale a dire che un uomo e mezzo su dieci è violento all’interno di una relazione». A dirlo è Alessandra Pauncz, anche lei psicoterapeuta e fondatrice a Firenze del primo Cam. Secondo la dottoressa quando si parla di violenza sulle donne è importante che sia chiaro che «il focus sul cambiamento deve essere sugli uomini».
Spiega che la priorità «è mettere in sicurezza la donna con interventi che “penalizzino la violenza”: mi riferisco ad arresti, ordini di allontanamento e tutti quei provvedimenti che individuano immediatamente dove sta la responsabilità. Il rischio con gli interventi che hanno un focus esclusivo sulla vittima, e intendiamoci bene io credo che la sicurezza della vittima sia una priorità, è quello di metterne a repentaglio la libertà. Quando devo impacchettare le mie cose, prendere i miei figli e scappare in una casa rifugio o mettere in atto una serie di interventi di protezione, sono la mia autonomia e la mia quotidianità a essere intaccate. Il sistema sociale, dunque, se vuole difendere le vittime di violenza di genere deve salvaguardare la loro libertà adottando politiche che incidano su quella di chi agisce violenza».
Di pari passo con questo va fatto un lavoro strutturato di formazione, con iniziative che seguano i giovani uomini durante tutto il percorso di crescita.
Le cause
A dispetto, infatti, della vastità del fenomeno testimoniata dai dati Istat, la percezione che gli uomini hanno del fenomeno è limitata. «Nella maggioranza dei casi, gli uomini, anche quelli che arrivano ai nostri centri, non è che si rendano conto di cosa hanno fatto e dei danni che hanno provocato nell’altro», dice Pauncz. La mancata presa di coscienza della gravità delle proprie azioni violente può essere riportata a due cause: la normalizzazione della violenza e gli alti livelli di competitività e mascolinità tossica presenti nella società.
Un recente rapporto di Terres des hommes e OneDay Group, realizzato con la collaborazione della community di ScuolaZoo, ha evidenziato che in un campione di 10mila ragazzi e ragazze tra i 15 e i 19 anni provenienti da tutta Italia, il 74 per cento ritiene che le vittime di violenza di genere non vengano prese sul serio dagli adulti. «Questo implica che se io, adolescente, avverto che per gli adulti la violenza è qualcosa di normale e che non merita attenzione, sarò a mia volta portato ad agirla», spiega ancora la dottoressa Pauncz.
Infine, come sostiene Bernetti, essere parte di una società in cui «io valgo e mi affermo per i successi che ottengo» spinge quei ragazzi che «hanno investito tutto su una relazione amorosa» ad elevati livelli di frustrazione quando falliscono nell’unica cosa a cui avevano dato importanza. Se a questo si aggiunge che parte della virilità è l’aggressività e le sue manifestazioni, ne consegue che “l’arma” per vincere la frustrazione diventa la violenza.
«L’altro non è una persona, ma un oggetto magico attraverso cui raggiungere l’affermazione personale. Quando viene a mancare, finisce il mondo. Il nostro compito è far comprendere ai ragazzi che non finisce il mondo, ma un mondo, quello della singola relazione», conclude Bernetti.
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