Araya (nome di fantasia) è una studentessa che vive in Etiopia, dove è nata quasi 30 anni fa, e che da tempo coltivava il sogno di poter venire in Europa per continuare gli studi già intrapresi nell’ambito della medicina.

Un desiderio che sembra realizzarsi la scorsa estate, quando la giovane donna viene ammessa a frequentare il corso di laurea magistrale in “Medical Biotechnology” della durata di 2 anni presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale di Novara. Un sogno che viene però all’inizio spezzato dall’inerzia di una delle ambasciate italiane all’estero, quella di Addis Abeba, in questo caso.

Fino a qualche settimana fa, quando il tribunale amministrativo del Lazio ha condannato il Ministero degli Esteri per non averle rilasciato il visto per motivi di studio. Sono tanti i casi di questo tipo che evidenziano il potere discrezionale delle ambasciate italiane all’estero attuato nei confronti degli studenti stranieri e per cui la Farnesina ha dovuto soccombere più volte in giudizio davanti al Tar del Lazio e al Consiglio di Stato, come Domani, peraltro, ha già raccontato. Andiamo con ordine.

Quando Araya si presenta il 16 agosto scorso all’ambasciata italiana del suo paese per chiedere il visto per l’Italia, infatti, le viene notificato un decreto di rifiuto della richiesta di rilascio dell’agognato lasciapassare per motivi di studio, con la motivazione che «dall’esame della sua domanda è emerso che lo sponsor non ha esibito mezzi di sostentamento adeguati al supporto economico del richiedente».

Ma è un fatto, invece - come prevedono i requisiti statuiti dallo stesso ministero dell’interno - che la donna per entrare in Europa aveva presentato all’ambasciata, oltre alle certificazioni universitarie, tutte le garanzie documentate circa i mezzi di sostentamento che le erano state garantite da uno “sponsor”, cioè, da una sua connazionale che oggi vive in Italia, allegando, quindi, alla domanda: l’estratto di conto corrente, il contratto a tempo indeterminato, la certificazione unica del 2023 attestante una retribuzione della donna pari a 35.000 annui.

Insomma, tutte le garanzie richieste di solito dalle banche in Italia per poter accedere ad un mutuo da centinaia di migliaia di euro. Altro che per poter ottenere un semplice visto per studio.

Pregiudizio

Eppure, l’avvocato di Araya e di altre decine di studenti e studentesse stranieri che sono stati sostenuti gratuitamente dal programma della società civile Yalla Study, Nicola Parisio, dice: «l’Amministrazione resistente ha ritenuto di dover rifiutare il rilascio del visto di ingresso per studio, evidenziando, unicamente, l’inadeguatezza dei mezzi di sostentamento esibiti dal soggetto sponsor al supporto economico del richiedente».

Secondo il legale, «il presunto accertamento poggia, tuttavia, su una totale carenza di attività istruttoria, rimanendo, nella sostanza, una mera congettura». Il sospetto, dunque, come per altri casi simili riscontrati da Domani, è che l’ambasciata abbia evidenziato l’esistenza del rischio migratorio come base del diniego, ma senza poggiarlo su basi normative concrete.

«Da qui discende un gravissimo quanto lampante pregiudizio al diritto di difesa della ricorrente, tutelato dall’art. 24 della Costituzione», afferma Parisio.

Un pregiudizio, questo, a cui si aggiunge quello evidenziato dal giudice Roberto Maria Giordano nella sentenza del Tar del Lazio che ha condannato il ministero degli Esteri e l’ambasciata di Addis Abeba.

«Nel bilanciamento degli interessi implicati sia meritevole di apprezzamento il pregiudizio derivante alla ricorrente dal diniego impugnato, che non le consentirebbe di proseguire gli studi, completando la propria formazione nella disciplina d’interesse», si legge.

Senza risposta

Di fronte a queste applicazioni arbitrarie e discrezionali della normativa sul rilascio dei visti da parte di molte rappresentanze consolari italiane all’estero e, nonostante le condanne, la Farnesina tace.

Come nel caso dell’interrogazione parlamentare presentata l’8 novembre scorso rimasta tuttora lettera morta e, attraverso cui, la deputata, Rachele Scarpa, aveva chiesto al ministro Antonio Tajani «se abbia piena contezza delle problematiche prassi delle ambasciate italiane nel mondo ed anche dell'ufficio ispettivo del ministero».

E, di conseguenza, «quali siano le ragioni e le decisioni dei vertici delle amministrazioni che hanno determinato e determinano sistematici ritardi, mancato esercizio del potere sostitutivo e disservizi in danno dei diretti interessati», si legge nell’atto parlamentare.

Anche l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, ha chiesto qualche settimana fa durante un question time all’esecutivo di dare conto delle storture del sistema. E la risposta del governo affidata alla viceministra agli Esteri, Maria Teresa Bellucci, stavolta, non si è fatta attendere. Bellucci ha garantito che «continueremo a garantire l’efficienza e la trasparenza nel sistema del rilascio dei visti». La Farnesina, dunque, o nega, o tace, nonostante le sentenze. 

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