La bevanda “sacra” ha un’unica regola: il rispetto delle legge ebraica. Tra storia e tradizione, mantenere intatta la sua purezza è essenziale sebbene alla fine lo bevono tutti, credenti e laici.
Durante un brainstorming interno a Minischewitz di qualche anno fa, era emersa l’idea di rinnovare il concetto di kosher, allargandolo da una visione religiosa a una di qualità dei prodotti. Tra le opzioni di marketing messe sul tavolo, c’era quella di una pubblicità con James Bond che si lanciava da un paracadute per salvare la regina Elisabetta II. «Stai facendo sul serio». «No, Sua Maestà. Lo faccio in modo kosher», sarebbe stata la risposta di 007 mentre le offre delle frittelle di patate prodotte dall’azienda di Cincinnati, aperta nel lontano 1888 e destinata a diventare il punto di riferimento per i prodotti della tradizione ebraica. Tra il “cibo di conforto per l’anima” – un motto che parla da sé – venduto sugli scaffali non troviamo solo la matzha (pane non lievitato) o il gefilte fish, ma anche vino, a cui è dedicato un sito online apposito.
Tuttavia, sebbene il tentativo di laicizzazione sia interessante oltre che utile per avvicinare quante più persone a una diversa cultura, slegare il vino kosher dalla sacralità che lo avvolge è pressoché impossibile. Letteralmente, kosher indica la purezza di un prodotto che lo rende conforme alla legge della Torah. E, quindi, commestibile per i fedeli. Il divieto riguarda ad esempio alcuni animali come il coniglio, il maiale e i crostacei, o alcune loro parti come il nervo sciatico o, ancora, il modo in cui vengono cucinate.
Un’unica regola: rispettare le regole
Per il vino i paletti sono ancor più rigidi. Seguirle pedissequamente è fondamentale per ricevere la certificazione del rabbino, l’ultimo passo per completare l’opera. Ma a renderlo kosher non è il suo timbro, quanto piuttosto il rispetto di ogni singolo passaggio nella produzione. È lui infatti che, anche presentandosi a sorpresa, certifica ogni passaggio della produzione. Questa, va detto, non si differenzia da quelle del vino tradizionale. Il procedimento è identico, fatte salve alcune particolarità imprescindibili.
A cominciare ovviamente dal divieto di lavorare durante lo Shabbat, quando tradizionalmente andrebbe bevuto vino kosher, ma niente vieta di farlo in altre occasioni. L’aspetto forse più interessante riguarda tuttavia la vendemmia. Le piante devono aver raggiunto il quarto anno di vita (Orlah), con i grappoli che vengono distrutti prima della fioritura, ma al settimo anno questa deve essere lasciata a riposo per dodici mesi (Shmitah, l’anno sabbatico).
Per chi lo produce è inoltre necessario avere una grande quantità di acqua, perché la prima legge kosher riguarda l’originalità degli strumenti con cui si lavora. Se una vasca è stata già utilizzata in passato per un vino diverso, va riempita per tre volte e svuotata ogni ventiquattro ore. I non ebrei non possono toccarla, né tantomeno prendere parte alla lavorazione.Con un’eccezione per la raccolta dell’uva, che è aperta a tutti.
Nel momento in cui questa entra in contatto con la vasca, però, il loro contributo si esaurisce perché si entra in una fase di massima sacralità. In realtà, esiste una scappatoia: far bollire il vino. Il termine ebraico è “mevushal” e vengono considerati come impossibili da profanare. Certo, il vino riscaldato non è più tecnicamente vino (non ditelo a chi beve vin brulé) e soprattutto il rischio è di rovinarlo. Un tempo era così, ma con le nuove tecniche oggi è più facile. Si può ovviare con una pastorizzazione a circa 190° per pochi secondi o, sempre agli stessi gradi, riscaldando l’uva sfruttando la tecnica flash-détente: prima viene messa in un macchinario apposito che la porta a temperatura e poi viene immediatamente riscaldata in una camera a vuoto a circa 80°. Una volta pronto, infine, parte del vino (l’1 per cento) viene scartata nella cerimonia del Trumat Maser, un sacrificio simbolico per ricordare la decima che i contadini versavano ai sacerdoti del Tempio di Gerusalemme.
Diffusione oltreconfine
Un contributo per far conoscere i prodotti kosher al di fuori di Israele è arrivata anche dalla convinzione che fossero più sani rispetto agli altri. Questo perché sono poveri di grassi animali e molti di loro sono senza glutine. Anche il vino ha raggiunto tanti paesi, con Italia, Francia e Spagna che si sono specializzate nella produzione del vino israeliano, ma sono gli Stati Uniti i primi per una naturale questione numerica: tra i loro stati contato 7,5 milioni di ebrei, tanti quanti ne conta Israele se non di più.
Una grande fetta della produzione interna viene destinata al mercato americano, faro per le esportazioni, che nel 2016 ammontava a circa 28 milioni di dollari solo per il vino. Non a caso, New York ospita due delle manifestazioni più importanti al mondo. Una di esposizione per i produttori, la Kosherfest, che quest’anno ha però annunciato la volontà di chiudere i battenti a causa degli acquirenti che preferiscono comprare il cibo kosher in fiere generali piuttosto che in quelle di nicchia: al suo posto dovrebbe nascere la Kosher-Palooza, un evento di degustazione rivolto ai consumatori. Sempre per loro è organizzata invece la Kosher food and wine experience (Kfwe), che fa tappa anche a Los Angeles. La California è d’altronde terra fertile per la produzione del vino kosher, che viene bevuto da tutti, ebrei e non. Tra le aziende leader del settore troviamo la Herzog Wine Cellars, la cui bottiglia Camoflage sfiora i duecento dollari.
Gli israeliani producono vino da millenni, ma un tempo con scarsi risultati. La svolta è arrivata nel momento in cui hanno cambiato zone, coltivando i vigneti in quelle montuose dove l’escursione termica e la terra vulcanica rendono il vino migliore. Le Alture del Golan rispondono a queste caratteristiche, ma non è questo il punto. Con la vittoria nella guerra dei Sei giorni del 1967, Israele conquistò la regione incastonata tra Libano e Siria, annettendola 14 anni più tardi. I prodotti di quella zona vengono commercializzati come israeliani, una circostanza contestata dalla popolazione palestinese. L’Unione europea ha provato a chiedete che cibi e bevande importate da Israele riportassero la denominazione di origine sull’etichetta, così che il consumatore fosse informato sulla loro provenienza: una richiesta non apprezzata dal governo Netanyahu.
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