Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


La quarta sezione era una specie di pronto intervento, una squadra Mobile con una competenza a livello nazionale dove si passava, da un giorno all’altro, dalle indagini sul furto della statua di Celestino V nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a quelle su omicidi più o meno seriali o più o meno “eccellenti”, al sequestro misterioso della salma di Serafino Ferruzzi nel cimitero di Ravenna, che fu la mia prima missione. Ci si occupava praticamente di tutto, o meglio, di tutto quello che destava particolare allarme sui giornali e nell’opinione pubblica, e di riflesso nella politica.

Erano attività, queste del pronto intervento, a volte impegnative, altre volte quasi di rappresentanza, giusto il tempo necessario a giustificare il titolone sulla stampa locale: «Sono arrivati gli uomini di De Gennaro», «Una squadra di superpoliziotti si occuperà delle indagini», e altre amenità del genere, e si può bene immaginare l’accoglienza dei colleghi del territorio, obbligati quasi sempre a subire con sorrisi di circostanza la presenza dei cosiddetti superpoliziotti, ché tali noi davvero non eravamo, anche se qualcuno ci si atteggiava.

Ma erano attività faticose anche per un altro verso: durante il corso da Ispettore, nella scuola di Nettuno, uno dei pochi insegnamenti che avevano lasciato il segno, almeno in me, era stato il discorsetto fatto da uno dei docenti, esperto di antiterrorismo, che ci aveva detto senza perifrasi: «Se già non l’avete, procuratevi un compagno o una compagna che sappia fare da padre e da madre insieme, se vi interessa avere e conservare una famiglia, altrimenti cambiate lavoro, perché questo non fa per voi». Io una famiglia la avevo, e le continue e soprattutto improvvise partenze mi costringevano a lasciare a metà le cose da fare, e che qualcuno in mia assenza doveva portare avanti.

Avevo resistito un paio d’anni, al Nucleo, tra una missione e l’altra, senza che ci fosse neppure un apprezzabile ritorno economico, visto che l’amministrazione della pubblica sicurezza a quei tempi rimborsava al personale in missione, e con gran ritardo, solo le spese di viaggio e dell’albergo; per i pasti, beh, per i pasti ti dovevi arrangiare, perché il principio vigente era che in sede o fuori sede avresti comunque mangiato.

Insomma iniziavo a rimpiangere il sedile della volante, con i “turni 28 in quinta” che almeno mi consentivano di programmare la vita con settimane di anticipo e di apprezzare la soddisfazione del cittadino che ti aveva chiamato e ti vedeva arrivare a dargli sostegno. Dal mio punto di vista era l’immagine migliore dello stato e della sua Autorità: il soccorso pubblico con l’aspetto rassicurante della divisa; nessun dubbio, nessun equivoco: se stai in divisa la gente sa chi sei, sa cosa puoi fare e cosa devi fare, e si aspetta che tu risolva il problema per il quale sei stato chiamato; i rapporti sono chiari, diretti, faccia a faccia.

Insomma, tirate un po’ le somme dei pro e dei contro, avevo fatto una davvero inusuale domanda di trasferimento per tornarmene alle Volanti, e siccome Francesco Gratteri (che aveva preso il posto di “Peppe” Zannini Quirini nell’agosto del 1988 alla direzione della Quarta Sezione) nicchiava a darle corso, chiesi di parlare direttamente con De Gennaro.

Mi chiamò nel suo ufficio il 15 maggio del 1989, e il colloquio, se così si può definire, durò giusto il tempo di dirmi: «Maurizio, la domanda te la trito, e se la rifai te la mando avanti, ma ci metto parere sfavorevole, e ti avviso di non cercare una raccomandazione per andartene, perché per quanto grande la trovi tu, io ne avrò sempre una più grande della tua». Alle parole seguirono immediatamente i fatti e ad accompagnarmi alla porta fu il rumore definitivo del tritacarte.

Magari sarà stata solo una coincidenza, ma io, dal nucleo, me ne sono potuto andare solo per raggiunti limiti di età. Questo era De Gennaro, altrimenti noto tra i suoi colleghi come “lo Squalo”.

Non che mi fossi illuso di godere di una stima incondizionata da parte sua: il mio dovere ero abituato a farlo già da prima, e avevo continuato a farlo anche una volta arrivato al nucleo; mai avevo sollevato eccezioni o accampato scuse di non poter partire, e sapevo che per questo ero soprannominato “il Soldato”, ma per lui era semplicemente una questione di principio: dal nucleo centrale anticrimine nessuno poteva pensare di andarsene a domanda, se non per gravissimi motivi, e men che mai se la domanda non fosse stata preventivamente concordata.

Dal nucleo te ne andavi se ti cacciavano, ed era quello che mi aspettavo che prima o poi succedesse. Anche per questo motivo l’agitazione che percepivo in ufficio, a settembre del 1989, non mi aveva turbato affatto.

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