Dopo i pm di Reggio Emilia altri magistrati chiedono un pronunciamento sull’abrogazione del reato. Il 24 settembre i giudici decideranno se accogliere la richiesta di parte civile
Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio la partita non è finita. La battaglia prosegue nelle aule di tribunale. E così dopo la Procura di Reggio Emilia, che nel processo Bibbiano, ha chiesto di sollevare un’apposita questione di legittimità costituzionale, oggi, 24 settembre, anche il Tribunale di Firenze, si pronuncerà sul punto. La decisione sull’ammissibilità, se avrà esito positivo, farà sì che l’ultima parola passi ai giudici costituzionali. Passaggio che il ministro della Giustizia Carlo Nordio vorrebbe evitare.
A sollevare la questione a Firenze è stato l’avvocato del foro di Terni Manlio Morcella. Il penalista l’ha fatto nel corso del giudizio che riguarda la faida famigliare dei Colaiacovo, la “dinastia” a guida della Colacem spa, una delle più importanti aziende italiane produttrici di cemento. Nel processo è imputata tra gli altri l’ex procuratrice aggiunta di Perugia ora in pensione e per anni numero uno dell’Antimafia, Antonella Duchini. Un processo in cui sono ipotizzati, per l’appunto, reati di abuso d’ufficio, peculato e rivelazione di segreto.
A fine requisitoria i pm hanno chiesto dodici anni e mezzo per Duchini, tredici per un suo collaboratore, ex carabiniere dei Ros. Tuttavia con la cancellazione dell’abuso d’ufficio voluta dal guardasigilli Nordio se ci sarà condanna, le pene saranno drasticamente ridotte.
Un caso, quest’ultimo, che a prescindere dal merito, risulta emblematico sugli effetti prodotti dalla riforma Nordio. L’abolizione dell’abuso d’ufficio potrebbe sanare infatti diffuse illegalità e soprattutto autorizzare eccessi di potere. Saranno cancellate, più in particolare, oltre tremila condanne definitive.
Ma torniamo alla questione di legittimità costituzionale sollevata con apposita istanza dinanzi al tribunale di Firenze. Quindici anni sono trascorsi da quando l’Italia ha adottato la Convenzione di Merida del 2003. Una carta - quella delle Nazioni Unite - che tuttora rappresenta uno strumento di anticorruzione universale legalmente vincolante.
Parte da qui Morcella quando chiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale in punto di abrogazione del reato di abuso di ufficio.
Abuso di ufficio che, al tempo dell’articolo 323 del codice penale, puniva il pubblico ufficiale che violando consapevolmente leggi, regolamenti o l’obbligo di astensione, cagionava un danno ad altri o procurava un vantaggio patrimoniale. «Come è possibile che uno Stato aderente alla Convenzione contro la Corruzione di Merida, obbligato a considerare l’inserimento del reato di abuso in atti d’ufficio nel proprio ordinamento, possa risolversi per la sua abolizione?», è scritto nell’istanza che il penalista ha presentato dinnanzi ai giudici fiorentini.
Ma per Nordio, che nel frattempo ha reintrodotto una parziale copertura penale per gli abusi patrimoniali dei pubblici ufficiali con il decreto carceri, la risposta è semplice. «Il ministro - prosegue il penalista, operativo a Roma - continua a sostenere che dalla Convenzione discenda una mera raccomandazione e non l’obbligo di prevedere nei nostri ordinamenti e nei nostri codici il reato di abuso d’ufficio. Questo - chiosa Morcella - non è corretto».
Questione di lessico
Uno “sbaglio”, dunque, nell’interpretazione della Convenzione. Secondo questa tesi il ministro della Giustizia non terrebbe conto del lessico utilizzato dall’atto anticorruzione delle Nazioni Unite. «Viene utilizzato il verbo “shall», che significa dovere - fa notare lo studio Morcella -. Quando invece la Convenzione ha inteso introdurre una mera raccomandazione, ha utilizzato il verbo may, “potere”. Ma anche se le parole sono importanti, la partita sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio non si gioca solo dal punto di vista lessicale.
«Secondo i più basici principi della logica, la disposizione convenzionale, per lo Stato contraente che, al momento della ratifica del Trattato, non annoverava un simile modello penale nel proprio ordinamento nazionale, importa l’obbligo di considerare la sua introduzione, mentre per lo Stato aderente che, alla medesima data, già lo contemplava, si atteggia alla stregua di un obbligo internazionale di stand stile». Obbligo internazionale a restare fermi, «in forza del quale il quadro normativo interno deve rimanere invariato, non dovendo il legislatore nazionale riconsiderare l’esistenza di tale fattispecie criminosa nel proprio sistema penale», si legge ancora nell’istanza. In altre parole, se uno Stato, nel momento in cui aderisce alla Convenzione di Merida, prevede già nel proprio ordinamento il reato di abuso d’ufficio, dovrebbe limitarsi a “mantenere” quel reato. Non a eliminarlo.
È proprio il caso dell’Italia: nel 2009 il reato di abuso di ufficio esisteva, era regolamentato all’interno del codice penale. Poi cos’è successo? «Ora, abrogandolo - conclude Morcella -, è come se il nostro Paese abbia tradito la Convenzione di Merida e sì, la Costituzione. Del resto un trattato va sempre interpretato in buona fede».
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