Quando, il 20 luglio scorso, il deputato di Più Europa Riccardo Magi è riuscito a far approvare nel ddl Semplificazioni l’emendamento che introduce lo Spid come metodo di sottoscrizione del referendum, nessuno ne immaginava l’effetto. Il risultato è stato quello di mettere le ali prima al quesito referendario sull’eutanasia - che ha raccolto ottantamila firme il primo giorno, centomila il secondo e ora ha superato il milione – e poi a quello sulla cannabis legale, che ha raggiunto le cinquecentomila firme necessarie in una settimana.

Il risultato, auspicato dagli organizzatori ma inatteso, ha sollevato un coro di preoccupazioni soprattutto provenienti dalla politica: lo Spid semplificherebbe drasticamente la modalità di raccolta firme, dunque si imporrebbe una revisione dell’istituto al fine di ribilanciarlo, contro la proliferazione incontrollata di referendum.

Ma la realtà è più complessa: se in effetti sul lato del sottoscrittore si aggiunge un metodo per firmare, la procedura è tutt’altro che semplice sul lato degli organizzatori. Non a caso, infatti, la firma digitale non è stata adottata nel caso del referendum per la giustizia giusta promosso da radicali e Lega: troppi i costi, troppo poco il tempo per allestire il sistema informatico.

Come funziona lo Spid

Lo Spid è l’acronimo di sistema pubblico di identità digitale ed è un sistema di autenticazione che permette a cittadini ed imprese di accedere ai servizi online della pubblica amministrazione o a servizi online privati con un'identità digitale. Lo strumento, che ha preso piede in particolare durante la pandemia e che ora viene utilizzato soprattutto da comuni e ministeri, si attiva attraverso degli identity provider –  gestori del servizio che, dopo aver identificato l’utente, rilasciano le credenziali – come ad esempio quello di Poste Italiane. L’utilizzo di questo metodo di identificazione è gratuito per tutte le pubbliche amministrazioni, mentre è a pagamento per i privati. 

Ogni soggetto privato - come i comitati referendari – che voglia utilizzare lo Spid deve diventare un cosiddetto service provider. Il sito della campagna referendaria deve implementare un software che si interfacci con il servizio degli identity provider: si tratta di un percorso tecnico che prevede la sottoscrizione di una convenzione e ha costi diversi a seconda dei dati che si richiedono agli utenti che firmano. Nel caso del referendum bastano i dati anagrafici e il costo è di 0,40 centesimi a firma, ma se si richiede ai firmatari informazioni extra come il numero di telefono il costo sale a 3.5 euro. La validità della convenzione è di un anno solare, durante il quale lo stesso utente può accedere quante volte vuole con la sua firma elettronica al sito privato convenzionato. 

Le difficoltà

Il percorso per attivare il tutto è tutt’altro che rapido: «Servono specifiche competenze tecniche, la  procedura è abbastanza complessa, ed oltre a Spid serve anche dare al firmatario un certificato qualificato e mettere sul documento firmato una marca temporale, dunque servono normalmente alcuni mesi», spiega Gianni Sandrucci, amministratore delegato di itAgile, la società che si è occupata di fornire l’infrastruttura digitale dei referendum sull’eutanasia e sulla cannabis. Per questo le associazioni e i partiti coinvolti hanno iniziato la procedura ben prima dell’approvazione dell’emendamento Magi: «Altrimenti sapevamo che non avremmo mai fatto in tempo. Invece il 12 agosto era tutto pronto», dice Sandrucci.

Dopo aver costruito l’infrastruttura e ottenuto le firme, per i promotori le fatiche non sono finite: secondo la legge del 1970 che disciplina il referendum, ad ogni firma – fisica o digitale – va associato il certificato elettorale che si ottiene presso i comuni. Questo, nel caso della firma con Spid, si ottiene attraverso una richiesta via posta elettronica certificata a cui il comune risponde con un’altra pec che contiene il certificato. Una volta ottenuto, un altro software elabora le pec ricevute e associa il certificato elettorale alla firma Spid.

Tutti questi passaggi fanno lievitare, per i promotori, il costo complessivo di ogni singola firma digitale per il referendum a 1,05 euro iva inclusa: «Un prezzo forfettario più basso di questo era impossibile», ha spiegato Sandrucci. Un costo interamente a carico dei comitati referendari, che hanno chiesto donazioni ai firmatari.

Ecco dunque i limiti pratici al timore della proliferazione di quesiti referendari a causa dello Spid: l’infrastruttura è costosa e i tempi per realizzarla non sono brevi. Tuttavia, un rischio astratto può esistere: i costi sono alti ma non proibitivi, dunque aziende e privati in grado di sostenerli potrebbero, spingendo la campagna di raccolta firme attraverso i social, sfruttare lo strumento referendario. A sbarrare la strada, tuttavia, rimane il dato di realtà: il referendum è il primo passo, ma perchè una legge venga abrogata servono voti veri ai seggi e il raggiungimento del quorum.

La proroga

Ad aggiungersi al problema dei costi c’è anche la procedura di recupero dei certificati elettorali, che sta costringendo i promotori del referendum per la cannabis (l’ultimo ad essere lanciato) a una corsa contro il tempo. Il termine di legge per la consegna delle firme è il 30 settembre ma per i comuni – che devono fornire i certificati elettorali entro 48 ore – è molto complicato processare via pec una tale mole di richieste. Per questo i promotori Marco Perduca, Antonella Soldo e Riccardo Magi hanno mandato una diffida alle amministrazioni chiedere il rispetto die tempi e ad oggi sono riusciti ad ottenere 340 mila certificazioni, ma «è materialmente difficilissimo poter mettere in sicurezza oltre 160 mila firme entro l’alba del 30 settembre», scrivono. Intanto, 400 persone hanno aderito ad uno sciopero della fame e da ieri è iniziato un presidio davanti a Montecitorio per chiedere la proroga del termine per il deposito al 31 ottobre.

 

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