- In America esiste una maggiore libertà espressiva per gli avvocati che vogliono farsi pubblicità, anche con vistosi manifesti.
- In Italia le regole sono diverse e il codice deontologico è chiaro e molto rigido: l’informazione è lecita se riguarda soltanto l’attività professionale dell’avvocato.
- Ma negli ultimi vent’anni la comunicazione è stata rivoluzionata: il Consiglio Nazionale Forense deve cercare di individuare una strada interpretativa che, tenendo conto delle novità tecnologiche, permetta agli iscritti all’albo di sapere con una ragionevole certezza che cosa sia lecito fare.
Il primo dubbio mi venne una quarantina di anni fa, durante uno dei primi viaggi in America. Sulle fiancate degli autobus, nelle affissioni delle grandi avenue cittadine, nei vistosi manifesti che incorniciavano piazze e palazzi, era usuale leggere degli annunci pubblicitari di questa natura: “Hai avuto un incidente stradale? Ti garantiamo un indennizzo da favola” Paul&Paul attorney at law.
Oppure: “ Stai per fallire? Ti possiamo aiutare a minimizzare i danni: chiama il numero....e chiedi di John John Smith”.
Essendomi laureato da poco, ancora fresco di studi sulla professione e sui limiti rigorosi alla pubblicità degli avvocati, mi sorprese l’assoluta libertà espressiva ed etica della comunicazione americana: non dire cose non vere, non fare promesse ingannevoli, non compararti con i colleghi in modo denigratorio o inveritiero. Poi, oltre a ciò, comunica pure quello che vuoi, quello che ritieni più utile per parlare ai consumatori, ai tuoi candidati clienti, per acquisirne sempre di più.
Queste le poche regole imposte agli avvocati americani per l’esercizio della loro professione.
Oggi la situazione non è cambiata, anzi, in certe stagioni recenti della vita politica statunitense, i legali americani hanno utilizzato molto la comunicazione tradizionale per competere con i loro colleghi a colpi di “sono meglio io”, “venite da me che il risultato è praticamente garantito”, “In materia di divorzi, sono il meno caro e il piu bravo”!
In Italia non è così
In Europa la tradizione e la cultura giuridica in materia è molto diversa, con declinazioni che mutano da Paese a Paese.
L’Italia ha sicuramente una normativa di riferimento più severa, più rigorosa, per alcuni colleghi non più connessa e adeguata agli sviluppi del mercato e, soprattutto, con le novità introdotte dalla rivoluzione della comunicazione via web.
Oggi il principio informatore del Codice Deontologico della professione forense è basato sulla legittimità di una informazione sobria dei dati relativi all’avvocato in un perimetro molto ristretto e tassativo “del che cosa si possa dire” e sulla illegittimità di tutte le forme di pubblicità o promozione delle attività legali connesse con la professione forense, indipendentemente dal media utilizzato.
Perché questa scelta molto precisa e molto diversa, per esempio dal sistema anglosassone?
La risposta la si ritrova nel comma 3 dell’articolo 1 del nostro Codice Deontologico: “Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela dell’affidamento della collettività e della clientela, della correttezza dei comportamenti, della qualità ed efficacia della prestazione professionale”.
Le norme del codice sono volte quindi a proteggere l’affidamento della collettività verso gli avvocati contro storture, scorrettezze, disinformazioni, false comunicazioni messe in atto dagli iscritti all’albo.
Questo è dunque il “cuore” del patto fiduciario che sta alla base del rapporto professionale ma anche etico dell’avvocato con il suo cliente.
Quel “patto” che, come nel mondo della sanità, per molti si è incrinato contaminando la virtuosità della relazione tra il professionista e il suo cliente. Di qui l’aumento, esattamente come è successo per i medici, del contenzioso tra cliente e avvocato per “cattiva” esecuzione del mandato.
Ma torniamo alle regole sulla informazione dell’attività professionale. Ci sono alcuni articoli che se ne occupano specificatamente. Vale la pena rileggerli insieme per capirne il razionale “a monte” e la portata in termini comportamentali.
Il codice deontologico
Art. 9: “L’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”.
Ma non basta: “L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense”.
La disciplina dell’articolo 9 è molto precisa e puntuale sugli obblighi comportamentali dell’avvocato. Il tema semmai è quello di verificare se il “senso comune” di certi termini come probità, dignità e decoro nel 2020 sia ancora lo stesso di quando questo art. 9 fu redatto per la prima volta.
Teniamo anche conto che la disciplina dell’art. 9 si applica come criterio di valutazione anche all’attività dell’avvocato “fuori dell’attività professionale”.
Art. 17: “E’ consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti”.
“Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, devono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative”.
La norma non lascia spazio a troppi dubbi interpretativi: l’informazione è lecita se riguarda soltanto l’attività professionale dell’avvocato, la sua organizzazione e struttura di studio, sue eventuali specializzazioni e titoli scientifici. Niente altro. I principi di riferimento per valutare la correttezza di tale informazione sono gli stessi che caratterizzano il Codice di autodisciplina nella comunicazione commerciale.
Con una scelta legislativa discutibile, il Consiglio Nazionale Forense ha voluto specificare meglio il contenuto dell’art. 17, integrandolo con i doveri che il legale deve rispettare quando fornisce informazioni sulla propria attività professionale.
Il pregio di tale norma è l’offerta all’interprete di numerose specifiche fattispecie di condotte dell’avvocato legittime o illegittime. Il difetto è il rischio di ridondanza rispetto a quanto già contenuto nell’art. 17.
Art. 37: “L’avvocato non deve acquisire rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procuratori o con modi non conformi a correttezza e decoro”.
“L’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali”.
Questo articolo si occupa di un tema collegato al principio della concorrenza sleale. L’avvocato deve porre molta attenzione a non acquisire dei clienti con delle modalità non conformi alla correttezza e al decoro. Anche su questo tema vale la riflessione che facevo prima riguardo al significato di tali termini nella nostra quotidianità.
Alla luce di questo “pacchetto” di norme specificatamente dedicate a disciplinare i rigorosi limiti dell’attività esclusivamente informativa dell’avvocato, i Consigli dell’Ordine e il Consiglio Nazionale Forense devono cercare di individuare una strada interpretativa che, tenendo conto delle novità tecnologiche, dell’affermarsi di una stampa di categoria e dei sempre più numerosi awards legali, permetta agli iscritti all’albo di sapere con una ragionevole certezza che cosa sia lecito e che cosa non sia lecito in un mondo della comunicazione che soltanto negli ultimi vent’anni ha subito una rivoluzione copernicana.
L’attuale struttura del Codice Deontologico, salvo qualche rischio di ridondanza, è molto chiara e precisa su questo tema.
Ma allora, i Consigli dell’Ordine locali e il Consiglio Nazionale Forense adottino, senza indugio e auspicabilmente con una visione unitaria, le dovute sanzioni a chi viola i principi espressi nel codice.
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