- Domani è destinatario di una originale (almeno per quanto a me noto) iniziativa: una diffida con la richiesta di risarcimento del danno quantificato, peraltro in misura non definitiva.
- Il Codice Rocco del 1930 prevedeva la possibilità di condannare il querelante o la parte civile, a domanda dell’imputato prosciolto, alla rifusione delle spese sostenute dal secondo per la difesa e ai danni subiti per colpa grave.
- Il nuovo codice di procedura penale del 1989 ha modificato tale strumentazione, prevedendo la condanna del querelante solo nel caso di formule di assoluzione definite più ampie: perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso, raramente possibili in caso di diffamazione.
Domani è destinatario di una originale (almeno per quanto a me noto) iniziativa: una diffida con la richiesta di risarcimento del danno quantificato, per altro, secondo quel che ho letto, in misura non definitiva. A prescindere dal caso concreto che non conosco in dettaglio, l’astuzia della richiesta ha stupito e stimolato una riflessione, a tutto campo, sulle liti temerarie avverso i mezzi di informazione e sulla drammatica condizione in cui versano le testate giornalistiche per i danni che possono subire, essendo ormai querela od azione civile strumenti spesso abusati.
È opportuno distinguere, innanzitutto, fra mezzi di compensazione disponibili nel processo civile e in quello penale. Nel primo, sono disponibili due strumenti: innanzitutto, la condanna del soccombente a rifondere le spese sostenute dal convenuto nel caso di rigetto della domanda a suo carico (qualsiasi ne sia la motivazione), quindi, ai sensi dell’articolo 96 del codice di rito, la condanna al risarcimento dei danni subiti dallo stesso convenuto, se l’attore ha agito con malafede o colpa grave.
Ebbene, nel settore penale, al momento, nessuno dei due è, nella maggior parte dei casi, utilizzabile per la stampa.
Le modifiche al codice
Invero, l’imputato assolto poteva godere di un trattamento simile, vigente il Codice Rocco del 1930; l’allora articolo 482 prevedeva la possibilità di condannare il querelante o la parte civile (nei reati perseguibili d’ufficio) – a domanda dell’imputato prosciolto – alla rifusione delle spese sostenute dal secondo per la difesa e ai danni subiti per colpa grave, eccettuati i proscioglimenti per insufficienza di prove, perdono giudiziale od altra causa estintiva del reato (ad esempio: la prescrizione).
L’articolo 382 disponeva similmente per il caso di proscioglimento in istruttoria. All’epoca, il giudice penale aveva competenza esclusiva su tali domande riconvenzionali con la stessa emissione della sentenza liberatoria. Non mi pare fosse uso convenzionale ricorrere a questa norma, per certo, lo feci per le spese con successo in materia di stampa proprio in quel primo periodo, in cui peraltro la querela veniva strumentalizzata per reprimere la stampa.
Senonché, il nuovo codice di procedura penale del 1989 ha modificato tale strumentazione adeguata alla materia che interessa. Invero, l’articolo 427 (per l’udienza preliminare) e l’articolo 542 (per il dibattimento) attualmente prevedono che, con le rispettive sentenze, si possa condannare il querelante soltanto nel caso in cui sia assolto con le formule definite più ampie: perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso. In più, la rifusione delle spese anticipate dallo Stato automatica è in disuso, quelle sostenute dall’imputato possono essere ottenute a domanda di parte (anche questa in disuso), mentre i danni possono essere risarciti esclusivamente se vi è colpa grave del querelante.
È noto che, in materia di diffamazione, sono rare le assoluzioni perché il fatto non sussiste: normalmente derivano dal misconoscimento della natura offensiva dell’addebito o dall’indeterminatezza della vittima del reato, casi di margine; statisticamente meno ricorrenti le assoluzioni per non aver commesso il fatto.
Ciò dipende dalla originaria impostazione della materia nel codice penale, risalente al 1930, e dalle fonti dell’adeguamento della materia alla Costituzione. Da un lato, infatti, la struttura del reato di diffamazione (costruita da Rocco) s’incentra sull’unico elemento costitutivo della prodotta offesa all’onore od alla reputazione. Nessuna influenza hanno, sulla perfezione del delitto, la verità del fatto o la continenza e l’interesse pubblico.
Va notato che, in origine, la prova liberatoria (che consiste nella possibilità di dimostrare, a propria discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa) era esclusa, salve le deroghe previste dall’articolo 596 (tuttora vigente, ma superato): se la persona offesa è un pubblico ufficiale, se per il fatto attribuito alla stessa è aperto o si inizia un procedimento penale, infine se il querelante formula domanda che il giudizio si estenda ad accertare la verità del fatto attribuito.
La sentenza della Consulta
Questo armamentario (avulso da ogni considerazione per l’imputato ed ignaro della libertà di stampa) è superato dalla sentenza numero 105 della Corte costituzionale, che riconosce piena dignità al diritto di cronaca, come discendente dall’articolo 21 della Costituzione, e lo àncora ai presupposti della verità del fatto, dell’interesse pubblico e della continenza espressiva.
Ciò comporta che i diritti di cronaca e critica acquistano la dignità di cause di giustificazione ai sensi dell’articolo 51 del codice penale, che esclude la punibilità nel caso di esercizio di un diritto. La formula assolutoria maggiormente in uso per i reati di stampa e di televisione è, dunque, perché il fatto non costituisce reato, non contemplata fra quelle che attualmente conferiscono all’imputato la possibilità di ottenere la rifusione delle spese sostenute ed, in caso di colpa grave del querelante, dei danni subiti.
Ciò premesso, non ritengo che la questione, rappresentata dalle liti temerarie o dalle cause intimidatorie nei confronti della stampa possa risolversi con un taglio netto: la depenalizzazione del delitto. Non foss’altro perché in questo modo, per risolvere un problema patologico, si verrebbe a produrre una distonia di sistema, essendo previsti altri delitti, contro interessi contigui di grado inferiore (come la privacy, protetta da un apparato sanzionatorio elefantiaco), sicché sarebbe necessario un ripensamento organico di tutta la materia dei reati contro la personalità individuale, mentre si potrebbe impunemente offendere chiunque, con conseguenze anche irreparabili.
Ritengo più opportuna una riforma del reato di diffamazione che integri nella fattispecie penale le condizioni (come la verità del fatto e l’interesse pubblico) che ora appartengono alle scriminanti, in modo che sia utilizzabile la formula perché il fatto non sussiste; oppure una novella degli articoli del codice di procedura penale che estenda anche alla formula “il fatto non costituisce reato” la possibilità di ottenere con la sentenza la rifusione delle spese per la difesa e i danni subiti per colpa grave. Con tale sistema, il querelante temerario potrebbe astenersi per evitare emorragie di denaro.
Inoltre, si potrebbe introdurre la condanna alla pena accessoria della pubblicazione della sentenza di assoluzione in modo da disporre di uno strumento deterrente per i querelanti abbienti, però interessati alla loro reputazione.
© Riproduzione riservata