Il governo si è opposto al riconoscimento della direttiva europea sui figli delle famiglie omogenitoriali. Ma in questi anni il parlamento è rimasto inerte di fronte alle richieste delle coppie, che hanno continuato la loro battaglia senza il sostegno della politica
- Nel 2021 è stata la Corte Costituzionale a stigmatizzare l’assenza di una legge dedicata al riconoscimento e alla tutela dei diritti delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso.
- Sul fronte giuridico, la giurisprudenza ha dovuto sopperire con pronunce soprattutto di merito. Fino ad oggi, tuttavia, lo strumento di protezione è individuato nel ricorso all’adozione in casi particolari.
- La politica, invece, è rimasta inerte. La destra oggi si rifiuta di affrontare la questione senza strumentalizzazioni ideologiche, dimenticandosi anche dell’interesse esclusivo dei minori.
«Questa Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore».
Così si concludeva, quasi due anni fa, la sentenza 32/2021 della Corte costituzionale. Una sentenza nella quale, per la prima volta, la Corte ha stigmatizzato l’assenza di una legge dedicata al riconoscimento e alla tutela dei diritti delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso.
Con un significativo mutamento di prospettiva, in quell’occasione la Corte mosse non dalla posizione degli adulti e del loro desiderio di diventare genitori, bensì dal punto di vista delle bambine e dei bambini, e del loro diritto di ottenere il riconoscimento giuridico del rapporto con entrambi i genitori dello stesso sesso.
In questi due anni, il parlamento è rimasto inerte. Nell’assenza di una decisione le famiglie omogenitoriali hanno continuato la loro battaglia. Una battaglia complessa, condotta davanti ai giudici e nelle amministrazioni comunali che, nelle pieghe dell’ordinamento, hanno trovato gli spazi per assicurare una qualche forma di protezione.
Tutto questo è tornato alla ribalta in questi giorni. Prima la decisione del comune di Milano che, sulla base di una nota della locale prefettura, ha dovuto interrompere le iscrizioni e le trascrizioni anagrafiche delle bambine e dei bambini con genitori dello stesso sesso.
E poi l’approvazione, da parte della Commissione Politiche UE del Senato, di una risoluzione con parere negativo sulla proposta di Regolamento europeo relativa al mutuo riconoscimento dello stato di figlio all’interno dell’Unione.
Il piano giuridico e quello politico sono strettamente intrecciati e l’analisi del primo non può prescindere dalla consapevolezza dell’influenza che su di esso ha il secondo. Nel mezzo, la vita di bambine e bambini in carne ed ossa e il diritto che cerca di trovare la via per avvicinarvisi.
L’assenza di una legge è decisiva. Vi sono state negli anni aperture nella giurisprudenza, soprattutto delle corti di merito. Dal 2019 la situazione è mutata, con decisioni di segno negativo da parte della Corte di cassazione.
Fino ad oggi, tuttavia, lo strumento di protezione è individuato nel ricorso all’adozione in casi particolari prevista dall’articolo 44, lettera d) della legge sulle adozioni del 1983. Uno strumento alternativo, ma non perfettamente equivalente alle iscrizioni e trascrizioni anagrafiche.
Penso in particolare all’onere aggiuntivo – che non è soltanto simbolico – di dover richiedere l’adozione di quello che è, nella vita quotidiana e dalla nascita, il proprio figlio o la propria figlia. E di doversi sottoporre a valutazioni di idoneità alle quali nessun altro genitore è costretto a sottoporsi.
Soluzioni alternative esistono, come è dimostrato da numerosi disegni di legge già depositati in parlamento e si muovono nel segno dell’eguaglianza. Soluzioni semplici, che estendono alle bambine e bambini con genitori dello stesso sesso le medesime tutele già previste per le famiglie eterogenitoriali.
La politica rimane indietro
Il contesto politico, tuttavia, è percorso da un conflitto lacerante e profondo sul tema. Lo dimostra la seconda vicenda di questi giorni, relativa al no alla proposta di regolamento europeo.
L’atto aveva un obiettivo molto semplice: assicurare che, in tutto il territorio dell’Unione europea, bambine e bambini possano circolare, assieme ai loro genitori, vedendo pienamente riconosciuto il proprio stato di figlie e figli.
Ogni stato membro rimane libero di disciplinare come crede la filiazione, ma non può impedire ad atti di nascita formati in altro stato membro di produrre effetti.
Invece, è sempre più forte il rifiuto ostinato, da parte delle destre italiane ed europee, di affrontare la questione al riparo da strumentalizzazioni ideologiche, concentrando l’attenzione esclusivamente – e come diritto imporrebbe – sull’interesse di queste bambine e di questi bambini e sulla loro concreta esperienza di vita.
E di farlo, magari, tenendo conto di decenni di ricerche che dimostrano che non vi sono sostanziali differenze, quanto a benessere psicologico nella crescita, tra minori con genitori di sesso diverso e minori con genitori dello stesso sesso.
Quel che è sicuro è che, per le famiglie omogenitoriali, l’assenza di riconoscimento e tutela è una dolorosa condizione di vita, che si protrae – in Italia – da decenni. Una sofferenza che si riaccende ogni volta che il dibattito pubblico, solo per poche ore, si infiamma nuovamente sul tema, salvo poi tornare a dimenticare. Aspettando che arrivi, finalmente, il tempo della politica.
© Riproduzione riservata