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La parabola dell’ex magistrato di Mani pulite inizia nel 2019, quando vota per Marcello Viola al vertice della procura della Capitale per il post Pignatone.
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Segue la rottura con il collega Ardita, il cambio di voto a sostegno di Prestipino e infine l’incauta presa in consegna dei verbali di Amara, con le comunicazioni informali al senatore Nicola Morra.
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Ora il rischio è che Davigo possa incorrere in conseguenze penali e la vicenda dei verbali segreti oggi lo costringe a difendersi da domande sulle sue scelte di comportamento.
Quella che ha trasformato l’ex magistrato Piercamillo Davigo da accusatore ad accusato è una discesa per tappe. Per capire come sia stato possibile che il dottor Sottile di Mani pulite, che del pool era considerato il più abile nel leggere e applicare le norme, sia oggi stato ribattezzato “Pieranguillo” per il suo modo di eludere le domande sul caso dei verbali di Amara, bisogna partire dal 2015.
E’ l’anno che segna la discesa in campo nella politica giudiziaria di Davigo e l’anno della fondazione di Autonomia e Indipendenza, il gruppo associativo che nasce da una scissione con le toghe conservatrici di Magistratura Indipendente in rottura con la linea dell’allora capocorrente Cosimo Ferri, e rivendica la separazione netta tra politica e giustizia.
Davigo da dieci anni è consigliere di Cassazione e il suo nome è ancora indissolubilmente legato all’inchiesta di Tangentopoli: diviene presidente di A&I, e nel 2016 si candida alle elezioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il suo nome ispira fiducia e anche se la corrente è appena nata, lui riscuote immediato consenso, tanto da diventare presidente dell’Anm nel 2016 e venire eletto al Consiglio superiore della magistratura nel 2018 insieme a Sebastiano Ardita.
Eppure, secondo molti colleghi la dimensione politica non gli apparterrebbe: uomo di battaglie giuridiche, Davigo si muove con poca dimestichezza nell’ambiente della politica togata che oggi è noto come “il sistema Palamara”, fatto di incontri e di equilibri tra poteri più che di dibattiti di diritto. Molti hanno guardato infatti a Davigo come a un simbolo, più che a un tradizionale capocorrente con poteri di direzione operativa. Una distinzione determinante, che potrebbe spiegare molte delle scelte che hanno portato Davigo a trovarsi, suo malgrado, protagonista nella vicenda della presunta loggia Ungheria.
La nomina di Viola
Il primo errore tattico ha una data precisa ed è il 23 maggio 2019: esattamente due settimane prima del dopocena all’hotel Champagne che farà deflagrare il caso Palamara ai primi di giugno dello stesso anno.
Davigo è membro della quinta commissione del Csm, che si occupa delle nomine e a cui spetta il voto preliminare sui candidati ai vertici degli uffici giudiziari del paese, che indicano al plenum la rosa di nomi tra cui scegliere. Bisogna scegliere il nuovo capo della procura di Roma dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone del 9 maggio e la lista di nomi usciti dalla commissione stupisce tutti: il più votato è il procuratore generale di Firenze Marcello Viola con quattro voti, a seguire con un voto a testa il capo della procura di palermo Franco Lo Voi e il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Il vantaggio di Viola – appartenente come Lo Voi alla corrente di Magistratura indipendente – spiazza tutti per due ragioni. La prima è che la sua nomina sarebbe in discontinuità con la influente guida di Pignatone e guarda alla parte più conservatrice della magistratura, quando invece l’asse che fino a quel momento ha guidato le scelte si appoggia sulla corrente progressista di Area. La seconda è che in favore di Viola ha votato anche Davigo, che quindi ha appoggiato uno degli ex compagni di Mi, da cui però si era polemicamente separato solo quattro anni prima. Una scelta, questa, che non è stata motivata dal consigliere e che, secondo alcune fonti interne alle correnti che all’epoca hanno gestito il passaggio di nomina, sarebbe stata il frutto di una linea condivisa.
Il voto per Viola, tuttavia, diventa un boomerang appena scoppia lo scandalo Palamara. Quello del pg di Firenze (inconsapevole degli accordi intorno alla sua candidatura), infatti, è il nome su cui convergono gli invitati alla cena dell’Hotel Champagne – Palamara, Cosimo Ferri, alcuni consiglieri del Csm e Luca Lotti – per pilotare la nomina al vertice della procura della Capitale, le cui intercettazioni ancora coperte da segreto finiscono sui giornali.
Così scoppia il caso anche se, nella confusione dei giorni successivi e nel mulinello di nomi che piano piano emergono dalle chat e dalle intercettazioni, la figura di Davigo finisce sullo sfondo. Contemporaneamente, matura la sua frattura con il collega di corrente Sebastiano Ardita.
Il Csm corre ai ripari, invalida la votazione del 23 maggio e il 14 gennaio 2020 la quinta commissione torna a esprimersi sulla rosa di candidati per Roma da presentare al plenum. Il nome di Viola è evidentemente bruciato dopo lo scandalo e al suo posto – accanto ai confermati Lo Voi e Creazzo - subentra Michele Prestipino, procuratore aggiunto nella Capitale e in quel momento reggente come facente funzioni, nonché braccio destro di Pignatone.
L’unico a votarlo è Davigo che, dopo aver imprevedibilmente votato Viola in maggio, ora vira su Prestipino e lo “candida” a presentarsi davanti al plenum. Anche nella votazione finale lo sostiene, discostandosi dalla posizione dei suoi due colleghi di gruppo associativo, Ardita e Di Matteo, che al plenum convergono entrambi su Creazzo. Il cambio di fronte è clamoroso: dal candidato di discontinuità e proveniente dalla corrente moderata, a quello che più garantisce la continuità con l’operato di Pignatone e che viene nominato procuratore capo dal plenum del 4 marzo con i voti della corrente progressista di Area, pur essendo sulla carta il meno titolato del gruppo di candidati.
Oggi, proprio la farraginosità della procedura è costata al Csm l’annullamento della nomina con sentenza del Tar Lazio e confermata dal Consiglio di Stato, che tra le motivazioni indica anche la carenza di motivazione che invece sarebbe stata necessaria per il cambiamento di voto di Davigo.
I verbali di Amara
Cronologicamente, i fatti emersi nelle scorse settimane vanno collocati poco dopo la nomina di Prestipino a Roma, nel marzo 2020. È a ridosso di questo momento che Davigo riceve dal sostituto procuratore milanese Paolo Storari i verbali dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara.
Storari chiede consiglio a Davigo perché non condivide quella che ritiene un’inerzia da parte del procuratore di Milano Francesco Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel non aprire un fascicolo sulle notizie contenute nei verbali. Nei verbali, infatti, si delinea l’esistenza di una presunta loggia segreta Ungheria, in cui compare anche il nome di Sebastiano Ardita.
Quello di Amara, tuttavia, è un nome noto a Davigo e che si intreccia con il caso Palamara: a inizio 2019 il pm romano Stefano Fava, infatti, parla con Davigo e Ardita proprio di dissapori e di possibili conflitti di interesse da parte dell’aggiunto Paolo Ielo e del procuratore Pignatone nella gestione del fascicolo romano su Amara.
E’ in questa fase che Davigo fa una serie di scelte di condotta che oggi lo espongono al rischio di conseguenze penali. Davigo, infatti, non suggerisce a Storari di fare un esposto formale al Csm ma accetta i verbali di Amara in formato word e senza i timbri di procura (elemento che esclude il reato di ricettazione) e mette personalmente al corrente del loro contenuto i vertici del Csm: il vicepresidente David Ermini, il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi e il primo presidente di Cassazione Pietro Curzio. Non solo, ne parla anche con il consigliere di Area Giuseppe Cascini, con quello di A&I Giuseppe Marra e con il laico Cinque Stelle Fulvio Gigliotti. Con tutti, però, lo fa in modo informale e senza lasciare traccia scritta che permetta di mettere in modo un qualche tipo di azione da parte del Consiglio.
Proprio questa procedura insolita è una delle principali zone grigie del caso della loggia Ungheria. Davigo sostiene di aver agito in modo corretto, in coerenza con una circolare del Csm del 1994. Quella circolare, tuttavia, dice che «il pm che procede deve dare immediata comunicazione al Consiglio con plico riservato al Comitato di presidenza di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio» e che «può ritenersi consentito il superamento del segreto investigativo ogni qualvolta questo possa rallentare o impedire l’esercizio della funzione di tutela e controllo da parte del Csm».
Al Csm l’interpretazione condivisa è che la circolare non legittimi affatto un procuratore a rivelare segreti d’indagine a un membro del Csm a sua scelta. Inoltre, le regole del segreto istruttorio sono disciplinate dal codice di procedura penale e dal decreto legislativo 109 del 2006: solo il procuratore generale presso la Cassazione, con il nulla osta del procuratore capo e se lo ritiene necessario ai fini delle determinazioni sull’azione disciplinare, può acquisire atti coperti da segreto investigativo senza che il segreto possa essergli opposto.
L’informalità tenuta in tutte le sue interlocuzioni sul dossier Amara rischia di essere un problema per Davigo, anche perché lo stesso pm Storari – oggi indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio – ha scaricato su di lui le responsabilità. «Tecnicamente il dottor Davigo era persona autorizzata a ricevere quegli atti, tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari», ha detto il suo avvocato Paolo della Sala.
Inoltre, in questa vicenda Davigo commette un secondo passo falso: lascia i verbali in formato digitale nel suo pc al Csm e proprio da qui, dopo il suo pensionamento, sarebbero stati trovati, stampati e inviati in plico anonimo alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica, oltre che al togato Nino Di Matteo che – nell’aprile 2021 – denuncia pubblicamente davanti al plenum di aver ricevuto i verbali segreti e li definisce calunniosi nei confronti di Ardita. Oggi, per l’invio dei verbali è indagata per calunnia l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto.
La confidenza a Morra
L’ultimo tassello della vicenda legata ai verbali sono le recenti dichiarazioni del presidente della commissione Antimafia ed ex parlamentare Cinque stelle Nicola Morra. Proprio le sue parole rischiano di essere un problema per l’ex pm di Mani Pulite.
Morra, infatti, ha rivelato di essere stato messo a conoscenza dei verbali segreti sempre da Davigo, in un’occasione in cui si era recato al Csm per parlare con il togato e con Ardita.
Il racconto di quell’incontro è stato fatto dallo stesso Davigo a DiMartedì: «Il senatore Morra, presidente della commissione Antimafia, è venuto da me e voleva in quel momento parlare con Ardita, con il quale avevo interrotto i rapporti perché in passato si erano verificati alcuni fatti che avevano fatto venire meno il rapporto fiduciario», sono state le parole di Davigo, che ha spiegato che, siccome Morra insisteva a chiedergli di parlare tutti e tre insieme, «L'ho fatto uscire e gli ho spiegato che oltre alle altre ragioni per cui non volevo parlare con Ardita c'è anche una questione che potrebbe riguardare una associazione segreta. E gli ho ricordato che nella sua qualità di pubblico ufficiale, come presidente dell'Antimafia, era tenuto al segreto».
I fatti sono stati confermati dallo stesso Morra, ma le loro posizioni divergono su un punto: il parlamentare sostiene (e lo ha dichiarato anche davanti ai magistrati di Roma) che Davigo gli avrebbe mostrato fisicamente i verbali, l’ex magistrato invece nega.
Tuttavia le intenzioni di Morra sono chiare e vengono spiegate da lui stesso sempre in televisione: «A seguito della notizia della rottura all'interno del gruppo di Autonomia e Indipendenza, per mia iniziativa ho cercato di ragionare con il dottor Davigo e il dottor Ardita, per ricomporre un quadro che a me sembrava particolarmente convincente perché doveva eradicare il sistema correntizio». In sostanza, Morra avrebbe tentato di farsi mediatore nella crisi tra Davigo e Ardita perché li riteneva il suo punto di riferimento in materia di politica giudiziaria. Davigo, a parziale spiegazione della rottura, lo avrebbe informato dei verbali sulla loggia Ungheria e della presenza del nome di Ardita.
Il procedimento Palamara
Altro passo falso cronologicamente successivo è la decisione di Davigo di rimanere membro della sezione disciplinare che, nel luglio 2020, inizia il procedimento che poi porterà alla radiazione di Luca Palamara dalla magistratura.
La difesa di Palamara ne chiede la ricusazione dal collegio e lo cita come testimone a discarico, perché Davigo nel marzo 2019 ha incontrato a pranzo insieme ad Ardita il magistrato romano Stefano Fava (oggi indagato a Perugia per rivelazione del segreto d'ufficio e favoreggiamento), che li ha messi al corrente delle divergenze e dei possibili conflitti di interesse dentro la procura di Roma, che poi sono stati oggetto di un esposto richiamato nelle incolpazioni al Csm rivolte a Palamara.
In particolare Fava mette al corrente Ardita e Davigo della sua volontà di presentare un esposto al Csm (cosa che fa il 27 marzo 2019) nei confronti del suo procuratore capo, Giuseppe Pignatone. «La questione era se il procuratore si dovesse astenere nei procedimenti che riguardavano ben tre degli indagati in oggetto, Amara, Bigotti e Balistreri. Risultava che questi avessero conferito incarichi professionali al fratello del procuratore, che fa l'avvocato e si chiama Roberto Pignatone. Insomma, io ritenevo che il capo del mio Ufficio si dovesse astenere. E a quel pranzo parlammo della faccenda e dei miei contrasti con Pignatone proprio per questa ragione», ha detto Fava in una intervista a Libero.
Ascoltato dalla procura di Perugia, anche Ardita avrebbe dato la stessa versione, dichiarando a verbale: «A un certo punto Fava iniziò a evidenziare alcuni problemi che aveva nella gestione dei procedimenti alla Procura di Roma. Parlò di alcune consulenze che il fratello di Pignatone aveva fatto per qualche indagato eccellente, se non ricordo male per l'avvocato Amara. Disse che questi rapporti del procuratore creavano dei problemi all'ufficio e anche alla sua attività investigativa».
Tradotto: Davigo sarebbe stato parte di un circuito di conoscenze e confidenze che lambivano la partita intorno alla procura di Roma. Non solo, risulta anche che Palamara avrebbe presentato un libro dello stesso Davigo e poi gli avrebbe dato un passaggio in macchina per tornare a casa, ma della conversazione di quella sera non ci sarebbe traccia perché il trojan installato sul cellulare di Palamara quella sera era spento.
Davigo, tuttavia, sceglie di non astenersi. L’istanza di ricusazione viene respinta e lui partecipa: viene anzi considerato uno dei grandi accusatori di Palamara. La sua presenza comporta anche una insolita accelerazione del procedimento disciplinare. Il 19 ottobre del 2020 per Davigo, infatti, scatta il pensionamento per raggiunti limiti di età e la sua decadenza da consigliere del Csm e quindi dal collegio disciplinare rischia di far saltare tutto il procedimento. Ecco che allora vengono fissate udienze a tappe forzate – tanto che uno dei motivi del ricorso in cassazione di Palamara contro la sentenza del disciplinare, oltre alla presenza di Davigo in possibile conflitto di interesse, è anche la compressione del diritto di difesa – e Palamara viene espulso l’8 ottobre.
Il pensionamento
Nominato Prestipino al vertice della procura di Roma ed espulso Palamara, l’ordine interno sembrerebbe ricomposto con una maggioranza relativa legata ad Area, ma per Davigo si apre lo scontro più duro.
Lui vorrebbe completare il mandato al Csm anche dopo il pensionamento: non è mai successo prima, ma si appiglia a un cavillo: il pensionamento non è causa espressa di decadenza dall’incarico di consigliere. Tuttavia il consiglio deve votare e a Davigo serve la maggioranza dei membri. Di quel che accade in quei giorni ci sono varie ricostruzioni. Secondo alcune fonti, Davigo avrebbe sperato di avere la maggioranza proprio perché era stato decisivo nella nomina del procuratore di Roma e nel caso Palamara. Secondo altri, invece, il sistema delle correnti prima lo ha usato per risolvere quelle due spinose vicende e poi se ne é liberato.
I fatti certi sono i seguenti: proprio il giorno della votazione sulla sua decadenza, Davigo non può essere presente al Csm perché viene chiamato a Perugia dal procuratore capo Raffaele Cantone per essere ascoltato come testimone nel processo penale a carico di Palamara. Un legame con quel processo che incrina ulteriormente l’opportunità del suo ruolo di giudicante nel disciplinare del Csm.
Nel mentre, la maggioranza del Csm vota contro di lui: determinante è il voto sfavorevole di Nino Di Matteo, consigliere indipendente ma eletto con la corrente di Davigo. Dopo il suo intervento si astengono tre consiglieri di Area (due invece voteranno a favore, come sembrava essere l’orientamento iniziale del gruppo) mentre votano contro i vertici della Cassazione (sia Giovanni Salvi che Pietro Curzio sono di area Magistratura democratica). Così Davigo esce di scena dal Csm, anche se propone immediatamente ricorso contro la decisione.
La somma di questi passi falsi porta a due possibili conseguenze: una di tipo penale e una politica. Sul fronte politico,le dichiarazioni del parlamentare grillino Nicola Morra che ha parlato di Davigo come «punto di riferimento» e che da lui è stato messo al corrente dei contenuti dei verbali aprono un problema alla corrente di Autonomia e Indipendenza, che era nata proprio dalla proclamata necessità di una distanza chiara tra partiti e giustizia.
Sul piano penale, l’informalità nel trattare i verbali segreti consegnati da Storari rischia di complicare la posizione di Davigo. Proprio il fatto che Morra si sia recato a rendere dichiarazioni spontanee ai magistrati di Roma potrebbe aprire all’ipotesi di un procedimento penale con l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio a carico di Davigo. Non c’è notizia che questo sia avvenuto, ma il rischio è concreto perché la norma è chiara: il pubblico ufficiale che «violando i doveri inerenti le sue funzioni» o comunque «abusando della sua qualità» rivela notizie che devono rimanere segrete o «ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza» rischia da sei mesi a tre anni di reclusione.
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