- Con la riforma Cartabia è venuta meno una delle cause di incandidabilità previste dalla cosiddetta legge Severino: anche chi ha patteggiato una pena può presentarsi alle elezioni, salvo il caso gli siano comminate pene accessorie.
- Una circolare del Viminale che, sulla scorta di un parere dell’Avvocatura dello stato, ha ribadito l’abrogazione implicita della norma sull’incandidabilità a opera della norma emanata sotto il governo Draghi.
- Non è dato sapere se da parte di Cartabia sia stato valutato ex ante l’effetto che la sua riforma avrebbe prodotto riguardo alla candidabilità anche di chi avesse patteggiato una pena. Se Nordio riterrà di non intervenire, ciò significherà che ha fatto proprie le conclusioni di chi l’ha preceduto a via Arenula.
In occasione delle elezioni amministrative del 26 marzo, dopo circa dieci anni, c’è stata una novità forse non chiara a molti: come precisato da una circolare Dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministro dell’Interno, hanno potuto presentarsi alle elezioni anche i soggetti destinatari di una sentenza di patteggiamento («applicazione della pena su richiesta delle parti», art. 444 del codice di procedura penale), salvo quelli cui fossero state comminate pene accessorie. In altre parole, è venuta meno una delle cause di incandidabilità previste dalla cosiddetta legge Severino. Per capire la portata della novità, è bene spiegarne i diversi passaggi.
La legge Severino
In base alla legge Severino, dal nome dell’allora ministra della Giustizia del governo di Mario Monti, non possono essere candidati o decadono dalla carica di deputato, di senatore o di parlamentare europeo le persone condannate in via definitiva a pena superiore a due anni di reclusione per delitti di maggiore allarme sociale (ad esempio, mafia, terrorismo, tratta di persone); per reati contro la pubblica amministrazione (ad esempio, peculato, corruzione o concussione); per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a quattro anni.
Per quanto riguarda gli amministratori regionali, provinciali e comunali, è prevista l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica di chi abbia riportato una condanna definitiva per reati come mafia e terrorismo o contro la pubblica amministrazione oppure la condanna a una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo. Per gli amministratori locali, inoltre, basta anche una condanna in primo grado non definitiva per la sospensione temporanea del mandato, che può durare fino a diciotto mesi.
Ai fini dell’incandidabilità, la legge citata equipara la sentenza di condanna a quella di patteggiamento, vale a dire il procedimento speciale che si basa sull’accordo tra pubblico ministero e avvocato dell’imputato circa la pena da irrogare a quest’ultimo. Al patteggiamento si ricorre di norma, ad esempio, quando una sentenza di assoluzione sarebbe difficile da ottenere: ciò può accadere non solo quando si è colpevoli, ma anche quando non si dispone di argomenti adeguati a sostenere la propria innocenza o di risorse sufficienti a consentire di portare a termine un lungo processo.
La legge Cartabia
Con la cosiddetta legge Cartabia, dal nome della ministra della Giustizia del governo di Mario Draghi, è stato sancito che le «disposizioni di leggi, diverse da quella penale», che equiparano la sentenza di patteggiamento a quella di condanna «non producono effetti», salvo che non siano applicate pene accessorie (art. 445, c. 1-bis, c.p.p.).
In altre parole, la riforma Cartabia ha fatto venire meno l’equiparazione disposta dalla legge Severino tra sentenza di condanna e sentenza di patteggiamento al di fuori dell’ambito penale. Il fine è quello di favorire il ricorso al patteggiamento, rendendolo meno afflittivo così da incentivare la definizione dei molti processi pendenti attraverso tale rito alternativo. Per citare un esempio, prima della legge Cartabia sarebbe stato escluso da una gara di appalto non solo chi fosse stato condannato, ma anche chi avesse patteggiato. Venuta meno l’equiparazione fra i due casi a opera di tale legge, il nuovo codice dei contratti pubblici ha coerentemente eliminato il patteggiamento dalle ipotesi di esclusione.
Con l’entrata in vigore della riforma Cartabia, il 30 dicembre 2022, si è posto il problema degli effetti del patteggiamento sull’incandidabilità di chi lo ottenga in un procedimento giudiziario. Tale riforma non ha formalmente modificato la legge Severino, la quale prevede – come detto – l'inidoneità assoluta alla candidatura del soggetto che abbia ottenuto una sentenza di patteggiamento, data l’equiparazione di quest’ultima alla sentenza di condanna.
Tuttavia, la formulazione della citata norma della riforma varata all’epoca del governo di Mario Draghi sembra non lasciare adito a dubbi: tale norma ha implicitamente abrogato le disposizioni della legge Severino sulla incandidabilità in ipotesi di sentenza di patteggiamento.
La circolare del Viminale
In vista delle elezioni amministrative dello scorso marzo, diverse prefetture hanno chiesto al ministero dell’Interno conferma del venir meno dell’incandidabilità sancita dalla legge Severino come conseguenza dell’eliminazione degli effetti extra penali del patteggiamento, a opera della riforma Cartabia. Il ministero, a propria volta, ha chiesto un parere all’Avvocatura dello stato.
Quest’ultima, richiamando la giurisprudenza sia della Corte europea dei diritti dell’uomo sia della Corte costituzionale, ha ribadito la natura non penale delle misure contenute nella legge Severino, «escludendone lo scopo punitivo»: tali misure sono state «introdotte nell’ordinamento nazionale per assicurare il buon andamento e la trasparenza della P.A. nonché delle assemblee elettive».
Pertanto, secondo l’Avvocatura, «tutti i soggetti per i quali sia stata pronunciata sentenza di patteggiamento non incorrono più in una situazione di incandidabilità», salvo il caso di applicazione di pene accessorie, in quanto la relativa disposizione è stata tacitamente abrogata dalla legge Cartabia. Il parere dell’Avvocatura è stato recepito in una circolare del Viminale.
Dunque, a differenza di quanto qualcuno dice, non è l’attuale governo ad aver cancellato con una circolare la disposizione della legge Severino sull’incandidabilità. Se pure è vero che a volte la gerarchia delle fonti in Italia pare un’opinione più che un principio di diritto, la circolare si è limitata a ribadire, sulla scorta del parere dell’Avvocatura, l’abrogazione implicita avvenuta a opera della norma emanata sotto il governo Draghi.
Che poi da parte di Cartabia sia stato effettivamente valutato ex ante l’esito che la sua riforma avrebbe prodotto riguardo alla candidabilità anche di chi avesse patteggiato una pena, non è dato sapere, anche perché nella relazione illustrativa della riforma non se ne fa cenno. Ma questo resta l’impatto che tale riforma ha prodotto.
Se l’attuale Guardasigilli, Carlo Nordio, non fosse d’accordo, potrebbe a propria volta intervenire sul tema, tornando a sancire l’incandidabilità per via normativa oppure configurando in via espressa la legge Severino come “speciale” rispetto alla riforma Cartabia, quindi non modificabile dalla successiva legge “generale”. Qualora, invece, il ministro riterrà di non agire, ciò significherà che ha fatto proprie le conclusioni di chi l’ha preceduto a via Arenula. Qualunque cosa si pensi della decisione circa la candidabilità di chi abbia ottenuto una sentenza di patteggiamento – patteggiamento che non è necessariamente indice di colpevolezza, lo si ribadisce – sia almeno chiaro in maniera certa a chi fa capo la decisione stessa.
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