- La Corte d’appello di Milano ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale lo scorso giugno aveva assolto il nigeriano Emeka Obi e l’italiano Gianluca Di Nardo dall’accusa di corruzione internazionale nel caso Eni – Shell Nigeria per il campo petrolifero Opl 245
- I due erano stati condannati in primo grado dal gup Giusi Barbara sulla base di prove che poi sono cadute in appello, anche per il giudizio di inattendibilità su coimputati come Vincenzo Armanna e Ednan Agaev
- Obi e Di Nardo hanno recuperato le somme loro confiscate in precedenza, che superano i 100 milioni di dollari in totale
Scorrendo le motivazioni della sentenza di appello di Milano che ha assolto gli intermediari e facilitatori Emeka Obi e Gianluca di Nardo dall'accusa di concorso in corruzione internazionale nel caso Opl 245 la prima impressione è quella di una revisione corposa della credibilità di alcuni personaggi che sorreggevano l'impianto probatorio sul quale si è basato uno dei più importanti processi che si sono svolti a Milano. Una revisione che ha fatto crollare poi tutto l'impianto accusatorio, giudicato non più che indiziario, intorno ai due imputati assolti dalla corte «perchè il fatto non sussiste», ovvero con la formula più ampia. In primo grado i due erano stati condannati a 4 anni di carcere con il rito abbreviato dal gub Giusi Barbara, che aveva ritenuto sufficienti le prove a loro carico all'interno di questa complicatissima vicenda.
Il fatto alla base di questo processo è noto: Eni e Shell nel 2011 hanno chiuso l'acquisizione dei diritti di esplorazione di uno dei maggiori campi petroliferi dell'offshore nigeriano, al tempo detenuti dalla società Malabu, dietro alla quale c'era l'influente politico nigeriano (Chief) Dan Etete, che li aveva messi in vendita. Per arrivare a questa definizione le sue major hanno pagato complessivamente 1,3 miliardi di dollari, ma di questi 1,092 miliardi sarebbero stati in realtà una maxi tangente che sarebbe finita a politici e pubblici ufficiali nigeriani oltre che qualche dirigente Eni come «cavallo di ritorno», per usare un gergo in voga per questi “affari”, secondo la tesi dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro che hanno condotto l'inchiesta.
Le loro ipotesi sono state sconfessate, però, prima dal tribunale di Milano nel processo principale dove erano imputati, tra gli altri, l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni oltre al politico Dan Etete, e poi dalla Corte d'appello per i due imputati che avevano scelto il rito abbreviato, con il collegio che ha ribaltato la sentenza di primo grado. L'unica che aveva ravvisato l'esistenza del reato di corruzione internazionale in quella vicenda.
Per i giudici di secondo grado le conclusioni alle quali è arrivata il gup si basano su personaggi e coimputati non credibili e sulla lettura degli indizi che non riesce mai arrivare alla forza di una prova. Vincenzo Armanna innanzitutto: coimputato nel processo principale, dov'è stato assolto con tutti gli altri, ma anche grande accusatore dei suoi ex colleghi e capi dopo essere stato allontanato dalla società nel 2013. Per il gup una «valutazione frazionata» delle sue dichiarazioni rese durante tutta la vita di questo procedimento, aveva consentito di dividere il vero dal falso. Per i giudici di appello la sua credibilità è stata nulla in realtà, perchè eccessivamente «incoerenti, inverosimili, contraddittorie». E poi la corte non le giudica «spontanee e disinteressate» perchè minate dal fatto che Armanna è stato l'unico dipendente Eni ad aver aver ricevuto un'elevata somma di denaro da Malabu, con una motivazione per nulla credibile (l'eredita del padre). Un milione e 200 mila dollari che, però, non sono stati ritenuti dal tribunale di Milano prova di tangente.
Anche la valutazione delle dichiarazioni di Ednan Agaev, altro intermediario imputato di questa vicenda e vicino a Shell, sono state riviste al ribasso. Agaev, ex ambasciatore russo in Colombia e poi uomo d'affari aveva detto all'Fbi che Etete gli aveva confessato di dover dare del denaro a senatori e deputati nigeriani, oltre che all'ex ministro della Giustizia Adoke Bello dopo aver incassato i soldi della vendita. Durante la sua deposizione nel processo principale, però, queste dichiarazioni erano state ammorbidite (quelle all'Fbi non sono mai entrate nel dibattimento) e questo lo ha reso agli occhi del collegio di appello, presieduto da Rosa Polizzi, troppo «generico» per un teste che riferisce circostanze de relato, ovvero apprese da altri, per giunta coimputati.
Per il collegio, al contrario, è stata molto importante la sentenza del processo inglese intentato da Emeka Obi a Dan Etete dopo la vendita di Opl 245. Obi, cui si era associato Di Nardo, chiedeva oltre 200 milioni di dollari per i suoi servizi nonostante ad un certo punto fosse stato estromesso dalla trattativa. Per i pm italiani tutto quel denaro nascondeva anche cavalli di ritorno per i manager Eni. Per il giudice inglese Elisabeth Gloster, che ha riconosciuto a Obi la metà di quanto chiesto, l'intermediario aveva effettivamente lavorato per Etete e non per Eni come sospettato dai pm. Per il collegio italiano la sentenza inglese è «significativa», legittima il ruolo di Obi e quest'ultimo non si sarebbe certamente ricorso a una corte se avesse avuto la consapevolezza di aver commesso un reato, con il rischio di auto accusarsi.
Con l'assoluzione, che non sarà appellata perchè anche il sostituto procuratore generale Celestina Gravina l'aveva chiesta, Obi è rientrato in possesso di una somma pari a circa 95 milioni di dollari e Di Nardo di 21 milioni di franchi svizzeri, in precedenza confiscati.
Da ricordare che il pm Fabio De Pasquale, indagato dalla procura di Brescia per rifiuto d'atto d'ufficio in relazione a questa inchiesta, ha proposto appello per il processo principale. E' al centro di una tempesta giudiziaria che ha spaccato la procura di Milano e per lui è stato aperto un procedimento di incompatibilità ambientale presso il Csm.
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