Negli azzurri è impasse tra Sisto e Zanettin, si cerca un terzo candidato. Stallo anche sul tecnico. Si potrebbe votare di nuovo giovedì 16. FdI punta su Marini, il Pd e le opposizioni vogliono Luciani
La conclusione della giornata è la stessa delle altre dodici sedute comuni precedenti: fumata nera, nessun giudice costituzionale eletto e quattro scranni ancora vuoti a palazzo della Consulta. Quanto alle responsabilità politiche, l’ennesima scheda bianca è frutto di un mancato accordo dentro la maggioranza di centrodestra.
La voce è girata velocemente tra i parlamentari circa un’ora prima del voto, tra sorrisi sconsolati e braccia conserte. Che la giornata fosse iniziata sotto i peggiori auspici, però, era chiaro sin dalla mattina. Il vertice della sera precedente tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani infatti non aveva avuto il risultato sperato di chiudere definitivamente la pratica. Fino all’ultimo – con la chiama fissata alle 13 – le telefonate si sono succedute, ma con l’unico risultato di allargare le distanze. Eppure metà dell’accordo era stato trovato dentro lo schema di due nomi di maggioranza, uno di opposizione e un tecnico.
Partendo dalle poche certezze della giornata, una accomuna tutti. «Entro la settimana si chiude», dicono Deborah Serracchiani del Pd ma anche Raffaele Nevi e Paolo Barelli di Forza Italia. Del resto la Consulta ha spostato appositamente la camera di consiglio per discutere dell’ammissibilità costituzionale del referendum sull’autonomia all’ultimo giorno utile, lunedì prossimo 20 gennaio. Dunque l’unica strada è quella già chiesta da Riccardo Magi di +Europa: sedute a oltranza. Calendario d’aula permettendo, la prossima dovrebbe essere riconvocata già giovedì 16.
Altro punto fermo sono due nomi: il padre del premierato Francesco Saverio Marini per Fratelli d’Italia e l’ex presidente dei costituzionalisti Massimo Luciani per il Pd e le opposizioni. Archiviato il profilo del costituzionalista Andrea Pertici, infatti, quello di Luciani è passato come trasversale.
Qui però si è incagliata la trattativa, con accuse reciproche tra maggioranza e opposizione. La prima, con Forza Italia in testa, ha sostenuto che «l’opposizione non è stata disponibile a trovare la quadra sul quarto nome tecnico». Opposta la posizione dei dem che hanno seguito il dossier: «Falso, è stata Forza Italia a non decidersi sul nome da indicare, quindi del profilo tecnico non si è nemmeno arrivati a parlare in dettaglio». Di più, ha spiegato un senatore: «Valeria Mastroiacovo, Gabriella Palmieri Sandulli...tutti i profili di tecnici che sono stati elencati ci sarebbero andati bene, perché avevano i requisiti. Ma la maggioranza si è inceppata ben prima». La prima è una giurista proveniente dal mondo cattolico, messa sul tavolo dal Pd ma apprezzata anche in area Lega. La seconda è l’ex vertice dell’avvocatura generale dello stato e raccoglie il placet delle opposizioni, con il Movimento 5 stelle in testa, e la non contrarietà preconcetta della maggioranza. Eppure, il nodo prodromico da scogliere rimane il nome in quota FI.
La maggioranza
Gli azzurri hanno cercato bene di mascherare l’impasse maturata dentro il gruppo. «Noi un nome lo abbiamo trovato, il problema è sul profilo tecnico», è stata la linea ufficiale. Eppure, secondo fonti concordi di maggioranza, in casa di Tajani è ancora nebbia fitta. Due i big uno contro l’altro: il veneto civilista Pierantonio Zanettin e il viceministro barese e penalista Francesco Paolo Sisto. La scelta finale spetta al vicepremier, ma con la consapevolezza che scegliere uno dei due significherebbe far esplodere l’altra fazione dentro il partito. Esclusa la contrarietà del Colle – che mai fino a questo momento si è opposto alla nomina di esponenti politici alla Consulta se in possesso dei requisiti – secondo fonti di governo, sarebbe stata Meloni a comunicare a Tajani di non volere profili parlamentari, perché si aprirebbero rimpasti e suppletive poco graditi. Di qui l’impasse e la ricerca spasmodica di un terzo nome tecnico. Circola quello dell’ex avvocato di Silvio Berlusconi, Andrea Di Porto, ma molti parlamentari alzano le spalle: «È stato nominato, ma nulla di più». Anche quello di Sandulli sarebbe stato stato fatto, ma la premier avrebbe opposto il fatto di non considerarla un vero nome d’area.
La sintesi categorica di un esperto ex Dc è: «Siamo in alto mare e tutto può ancora succedere». Ecco perché i due competitor iniziali ancora conservano un barlume di speranza: nelle almeno 48 ore che separano dal nuovo voto i giochi sono ancora da considerarsi aperti. «Ma l’accordo è vicino», ha assicurato il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, che ha presieduto anche la seduta sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere.
Lo scivolone
Nonostante si cerchi di minimizzare, la mancata elezione è stata dovuta a un intoppo tutto interno alla maggioranza, che ha impedito la chiusura di un dossier ormai sempre più imbarazzante. La Consulta decide senza un collegio perfetto dall’11 novembre 2023 e a fine dicembre i giudici sono rimasti in 11: se non si riuscirà a nominare i nuovi entro lunedì, saranno loro a decidere in solitaria sul referendum sull’autonomia.
Inascoltati gli appelli del Quirinale, si è deciso di attendere a oltranza fino alla possibilità di procedere con una nomina a pacchetto di quattro nuovi giudici costituzionali, sperando che così fosse più semplice gestire la spartizione. Eppure così non è stato. Per chiudere servirà uno scatto di volontà collettivo che per ora non si è visto, tanto che a fine serata è stato Giuseppe Conte a tornare a sparigliare le carte. La maggioranza non potrà scegliere anche il quarto nome del giudice neutrale: «Se sarà così noi non ci stiamo». Ad oggi, quindi, l’unica certezza sono le 377 schede bianche.
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