Francesco Schiavone nel 2019 chiedeva alla direzione dell’istituto in cui era detenuto di portare pacchi e consegnare il cibo. La sua collaborazione è stata rallentata anche dal figlio Emanuele, tornato libero a Casal di Principe rifiutando la protezione
Il camorrista Francesco Schiavone, detto Sandokan, voleva pentirsi da tempo. Un documento che Domani ha letto conferma la volontà di cambiare vita del numero uno del clan dei Casalesi, un intendimento inizialmente frenato anche dalla contrarietà del figlio, Emanuele Libero Schiavone, scheggia impazzita della famiglia criminale ormai azzerata con il pentimento del capo assoluto.
I due destini opposti si incrociano anche in questi giorni, con Sandokan che per la prima volta è inserito nella lista testimoni in un maxi processo su clan e appalti e il secondo che è tornato da uomo libero nel regno del padre, dopo aver scontato una condanna per associazione camorristica.
Faccio lo scopino
Sandokan è stato il capo assoluto del clan dei Casalesi insieme a Francesco Bidognetti, detto “Cicciotto ‘e mezzanotte”. Una incoronazione insanguinata dall’uccisione di Antonio Bardellino, sulla cui fine si attendono le dichiarazioni di Schiavone.
Proprio l’omicidio di Bardellino, avvenuto in Brasile nel 1988, aveva spianato la strada al repulisti interno con l’ascesa dei nuovi vertici. Dopo anni di latitanza Schiavone è stato arrestato nel 1998 e ristretto al carcere duro, mentre altri capi e boss, come il figlio Nicola, consegnavano le loro confessioni alla giustizia. Confessioni che non hanno generato alcun terremoto giudiziario, alcune collaborazioni hanno lasciato dubbi e aperto quesiti più che chiuderli.
La decisione di Schiavone è stata lungamente meditata, come dimostra quanto accaduto nel 2019. Il boss era in regime di 41 bis e prendeva carta e penna per scrivere alla direzione del carcere. Cosa conteneva l’epistola?
«Il sottoscritto Francesco Schiavone chiede alla signoria vostra di volermi autorizzare di lavorare come porta vitto e spesa». Il capo dei capi della mafia casertana, insomma, chiedeva di fare lo “scopino”, come si chiama chi in carcere si occupa di pulizie e porta i pacchi. Era l’inizio della fine della sua epica criminale e di quell’aura di onnipotenza che lo circondava. Il percorso avviato, in quella fase, non ha avuto alcuna conseguenza, «probabilmente anche e soprattutto per alcuni segnali di profonda contrarietà arrivati al capo assoluto dal figlio Emanuele», racconta un investigatore. Quell’Emanuele Schiavone uscito in questi giorni dal carcere.
«Se esco pazzo»
Non è solo una coincidenza che la collaborazione con la giustizia di Francesco Schiavone sia arrivata e sia stata annunciata proprio in concomitanza con l’uscita dall’istituto di pena del figlio riottoso. Vale come messaggio: il nostro clan è cenere, il nostro cognome non si può più spendere. Schiavone junior è tornato a Casal di Principe, dove ha ritrovato il fratello Ivanhoe, entrambi hanno rifiutato il programma di protezione, a differenza delle sorelle e della madre, mentre Nicola e Walter Schiavone si erano già pentiti.
Proprio la moglie di Sandokan, Giuseppina Nappa, in passato aveva raccontato ai pubblici ministeri il proponimento del marito di avviare la collaborazione con la giustizia. «Durante alcuni colloqui tenuti presso il carcere di Opera, mio marito ha fatto espressa menzione di “zio Nicola” e del fatto che sarebbe stata una delle prime persone di cui avrebbe potuto parlare “se fosse impazzito”, intendendo l’ipotesi di una sua collaborazione», diceva Nappa, che si era sempre più allontanata dal marito, considerato responsabile dell’epilogo disastroso dell’intera famiglia anche alla luce delle casse rimaste vuote.
Gli appalti e i rifiuti
«Zio Nicola» è Nicola Schiavone, imprenditore omonimo e amico stretto del capo del clan da decenni. E, infatti, proprio nel processo a carico dello Schiavone imprenditore il boss pentito è inserito nella lista testimoni. Nappa parla così del professionista: «Continua ad utilizzare “Il Lievito madre, preparato da mio marito”, e se posso essere ancora più esplicita egli ha sempre continuato ad avere interesse a non recidere completamente i rapporti per paura che noi potessimo riferirlo a mio marito e soprattutto per il timore che lui potesse collaborare con la giustizia».
Il boss pentito è stato indicato come testimone nel processo, il troncone napoletano, nel quale l’imprenditore è accusato di essere il terminale degli affari del clan. Avrebbe mantenuto contatti istituzionali anche con manager di Rfi, Rete ferroviaria italiana, per consentire al clan di aggiudicarsi numerosi appalti. Altri imputati rispondono di corruzione (i funzionari di Rfi), turbativa d’asta, riciclaggio con l’aggravante della metodologia mafiosa e rivelazione di atti coperti dal segreto delle indagini.
Fino a questo momento, in altri dibattimenti, Nicola Schiavone è sempre uscito indenne. Associazioni e comitati ambientalisti attendono dal boss pentito anche nuove rivelazioni sul traffico illecito di rifiuti con il quale Schiavone-Sandokan ha guadagnato vagonate di soldi, «un miliardo al mese», come ha raccontato a Domani il collaboratore di giustizia, Gaetano Vassallo, considerato il “ministro dei rifiuti” dei Casalesi.
I regali dello stato
Ma i nomi di molti imprenditori che hanno avvelenato il territorio sono già noti, molti l’hanno fatta franca e sono tornati a lavorare investendo nelle nuove tecnologie, altri, invece, sono stati destinatari di inaspettate distrazioni giudiziarie.
Nelle scorse settimane la Corte di cassazione ha annullato la confisca di 200 milioni di euro ai fratelli Pellini, uno di loro era un maresciallo dei carabinieri, imprenditori già condannati per aver causato un disastro ambientale. La Suprema corte ha dovuto accogliere la richiesta dell’avvocato Francesco Picca che aveva evidenziato il ritardo della corte d’appello nell’emissione del verdetto e la conseguente perdita di efficacia del decreto, trascorsi i 18 mesi dal deposito del ricorso. E così è accaduto.
Le date raccontano questo incredibile e colpevole ritardo giudiziario. Il 15 marzo 2019 venivano presentati i ricorsi dalla difesa dei Pellini, la prima udienza veniva fissata nel novembre successivo, ma nel maggio 2023, quattro anni dopo, non era stata presa alcuna decisione, e così si è arrivati all’annullamento.
«Più volte mi ero recato in corte d’appello per sollecitare una decisione, ma nulla è accaduto, ora si faccia chiarezza e paghino i responsabili (il ministero ha inviato gli ispettori, ndr). Rinnoviamo l’appello al procuratore Gratteri a emettere un nuovo decreto di confisca, perché il danno ambientale è permanente», dice Alessandro Cannavacciuolo, attivista e protagonista di una lunga battaglia contro gli imprenditori avvelenatori.
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