- Il bullismo è la tragica metafora della violenza che attraversa la società e che tende sistematicamente ad escludere e colpire i diversi, colpevoli per l’appunto della loro diversità.
- I minori sono come dei “ricettori” che assorbono le contaminazioni esistenziali e culturali, i miasmi che attraversano la società, convertendo questi stimoli in sofferenza e violenza. Attenzione dunque ai messaggi che vengono inviati da chi ha il potere di diffonderli.
- Ecco dunque che la procura minorile diviene avamposto nel dolore, sguardo consapevole sul futuro che sarà.
Il bullismo integra una delle manifestazioni della devianza minorile. La condotta di “bullismo” è strettamente sussumibile nell’alveo descrittivo ed applicativo della fattispecie di “atti persecutori”, di cui all’art. 612 bis c.p., come del pari quella cd. di “cyber-bullismo”, ove naturalmente gli agiti posti in essere dal minore integrino i requisiti strutturali della fattispecie di reato.
Tutta l’impostazione teoretica del diritto minorile è proiettata alla tutela dell’integrità fisio-psichica del minore, autore o vittima del reato che sia, e quindi non esclusivamente alla mera repressione delle condotte illecite. Non c’è reato commesso dal minore che non sottintenda ed esprima sofferenza, dolore, disagio.
Il reato del minore consente di scrutare la devianza nella sua genesi primordiale, come incipit esistenziale di un percorso alterato da fattori, spesso concomitanti, che inoculano nel minore una distorta visione di sé stesso, dell’altro, della società.
La violenza come “metodo relazionale” è la chiave di volta per analizzare il fenomeno del bullismo e del cyber-bullismo, laddove la prevaricazione si nutre dell’isolamento, della denigrazione dell’ “altro”, della messa in ridicolo del più debole, del più fragile, della persona vulnerabile.
Anche l’esaltazione estetica della “bellezza”, quale ipostasi di una pretesa superiorità, nell’accezione narcisistica di una fisicità scultorea scolpita da esercizi ed esibizionismo, può farsi violenza discriminatoria quando non si limita ad “essere”, ma vuole prevalere a scapito di chi è ritenuto “brutto”, e per tale ragione deriso e vessato.
L’estetica della forza quindi per realizzarsi ha bisogno di un totem sacrificale, abbattendosi fatalmente sul più debole.
violenza corrisponde a vulnerabilità
L’esatto corrispondente della violenza, anche nella declinazione del bullismo, è pertanto la vulnerabilità, che assume i connotati della fragilità psicologica, del diverso orientamento sessuale, della sofferenza estetica, dell’handicap, della abominevole discriminazione razziale, del censo quale pretesa del più ricco di dileggiare ed isolare il povero inteso quale reietto della società, della malattia psichica, della solitudine, del più spregiudicato consumismo da intendersi nell’accezione pasoliniana di “omologazione culturale” quale alveo conformista che preclude l’accesso a chi non ha i requisiti per diluire se stesso in un unicum che si nutre di simboli estetizzanti e di requisiti estetici, timocratici o di mera prevalenza fisica.
Il bullismo diventa allora la tragica metafora della violenza che attraversa la società e che tende sistematicamente ad escludere e colpire i diversi, colpevoli per l’appunto della loro diversità.
La violenza diviene crisma di riconoscimento sociale, di supremazia, di leadership, che per realizzarsi ha bisogno di un bersaglio totemico, quasi uno specchio in cui il bullo vede se stesso “in azione”, mentre infierisce sulla propria vittima, sentendosi forte.
Il bullismo è un epifenomeno della diseducazione etica e civica, del relativismo, la manifestazione di una “società senza Dio”, dove la deità non è necessariamente un’entità metafisica, ma piuttosto una entità valoriale, laica o religiosa che sia, che valga a distaccare l’Io da sé stesso ricongiungendolo ad un’umanità che trascende l’egoismo, procreando un’immagine rinnovata dall’amore per l’altro.
Questa accezione dell’umanità è per l’appunto reietta nel comportamento del bullo, che attua una “cristallizzazione pulsionale” di istinti personali e di “inconscio collettivo” che si nutrono di violenza, di prevaricazione.
La densificazione dell’egoismo, l’esaltazione della forza, l’accanimento simbolico contro i deboli, i soggetti vulnerabili, i diversi, i naufraghi della vita, l’ elevazione della leadership come proiezione egotica del predominio, hanno ammalato la società di odio e di violenza, contaminando i nostri ragazzi.
La profezia di Pasolini
I minori sono come dei “ricettori” che assorbono le contaminazioni esistenziali e culturali, i miasmi che attraversano la società, convertendo questi stimoli in sofferenza e violenza. Attenzione dunque ai messaggi che vengono inviati da chi ha il potere di diffonderli.
La modernità ha fornito alla violenza un nuovo straordinario strumento di realizzazione, la Rete, i Social Network, una comunicazione veloce e rampante che annulla il pensiero in un tweet, in un algoritmo, in un messaggio seduttivo privo di profondità e di spessore, ma idoneo ad eccitare, ad aizzare i peggiori istinti, a vellicare l’indomito animale che l’essere umano si porta dentro.
Se la forza diviene la “misura di tutte le cose”, va da sè che il più debole, perché fragile e vulnerabile, venga ad essere espulso dall’alveo degli eletti, e per questo boicottato e vessato. E la percezione di questa discriminazione può determinare nel minore un defatigante senso di fallimento, di vuoto, di isolamento, perché la propria fragile identità necessita del riconoscimento dell’Altro, del Gruppo, per potersi strutturare.
L’incontro tra violenza e vulnerabilità realizza pertanto una perversa alchimia, che da una parte esalta il narcisismo egoico del bullo e dall’altra fiacca, ferisce, umilia la vulnerabilità della vittima.
Soltanto la consapevolezza della rispettiva vulnerabilità, inoculata dall’intervento giurisdizionale e pedagogico, può ristabilire in un abbraccio unificante il sentimento dell’umanità che è andato perduto per cause opposte.
Occorre recuperare lo sguardo dolente sulla vita, lo sguardo di Cristo, o più laicamente, il rispetto dei valori costituzionali, per porre un argine, un confine valoriale e invalicabile a questo diluvio di violenza.
La profezia di Pasolini si è dunque avverata, il totalitarismo è sopravvissuto a sé stesso, dismettendo le tragiche vestigia del ventesimo secolo, per assumere il più accomodante abito della violenza discriminatoria, della ideologia della superiorità, connotandosi in maniera dissimulatoria come teodicea della forza, conformismo, esclusione dei diversi.
Il razzismo è una manifestazione di questo atteggiamento oramai dilagante nella società.
Se non si sa cogliere questo substrato antropologico, socio-culturale, quale linfa vitale e collante teleologico della devianza minorile, se ne disperde il significato più profondo, di imbarbarimento, di perdita di senso, di atroce disumanizzazione, trasformando anche il bullismo in una “moda”, fatta per allietare schiere di commentatori ma non per risolvere alla radice il problema.
Il ruolo della procura minorile
Ecco dunque che la procura minorile diviene avamposto nel dolore, sguardo consapevole sul futuro che sarà.
Non ci può essere resipiscenza, reinserimento sociale, redenzione, salvezza senza focalizzazione della propria responsabilità. La rinascita inizia con la introiezione del significato della propria responsabilità, con la metabolizzazione interiore del significato disvaloriale dei propri agiti violenti.
Inauguriamo dunque una stagione di “nuovi doveri” e non soltanto di “nuovi diritti”. E il primo dovere che esiste nella vita è il rispetto dell’altro e di sé stessi.
Occorre recuperare il rigore, quale parametro comportamentale e teleologia esistenziale, il rigore che non è propaganda, tweet livoroso e seduttivo, ma piuttosto pietas che in quanto consapevole della natura umana pretende che ad ogni azione corrisponda una precisa assunzione di responsabilità
La relativizzazione dei doveri e l’unilateralismo dei diritti produce un cortocircuito che consuma la società in un fuoco distruttivo, dove ognuno pretende di fare ciò che vuole e nessuno ciò che deve.
I giovani hanno bisogno di regole da rispettare, di doveri da introiettare, di valori da metabolizzare, e ciò richiede una consapevolezza in ordine alle conseguenze che le proprie azioni illecite possono produrre. È l’assunzione del dovere che produce il diritto e non viceversa.
Occorre riscoprire per intiero il valore del concetto di “legalità”, perché essa include e non discrimina, non fa distinzioni di razza o di censo. Occorre rivolgere il massimo rigore a chi viola la legge, cittadino italiano o immigrato che sia. È del tutto erroneo, strumentale, pericoloso, distruttivo incentrare la repressione penale, dirigendovi l’attenzione dei consociati, su di una unica categoria, eretta a simbolo catartico dell’insicurezza sociale. Occorre piuttosto applicare inderogabilmente la legge a chiunque la violi, rom, immigrato, cittadino italiano, senza flettere. È questa la vera palingenesi. Colpire chi delinque e non chi fugge dalle bombe, dal dolore, dalle membra macerate, dai gas.
La disumanità produce violenza.
Legalità, educazione civica, formazione delle coscienze, rigore, umanità, coerenza tra declamazione di principi e comportamenti, a cominciare dai Pubblici Ufficiali.
La migliore pedagogia è l’esempio.
Questa la premessa, in cui calare l’analisi criminologica e giuridica di un fenomeno che ci descrive l’Italia che sarà.
Scuola e famiglia
La scuola deve riappropriarsi del suo ruolo, e quindi della sua autorevolezza. Il bullismo endo-scolastico segna il fallimento della scuola. E fa riflettere che si sia progettato di affidare ad un automatismo la concessione della cittadinanza, il cosiddetto “ius soli ”. Quella stessa scuola che non è in grado di formare le coscienze, di produrre integrazione, di fare formazione civica, dovrebbe poi diventare la nuova fabbrica della cittadinanza, quasi che l’avere seguito un ciclo continuativo di istruzione scolastica possa essere “ipso facto” garanzia di fedeltà repubblicana. È assurdo.
Le scuole non sono campi di concentramento, ma non possono neppure diventare piazze violente, stadi fagocitati da tifoserie scalmanate che sovrastano la voce dei docenti.
La famiglia deve connettersi alla funzione pedagogica della scuola, supportandola, e non già delegittimandola, schierandosi acriticamente con i propri figli quando gli stessi vengono ad essere rimproverati o puniti.
La connessione tra genitori e scuola integra uno snodo vitale nell’incontro tra individuo e Stato, e con tale consapevolezza deve essere realizzato questo incontro.
Il controllo dei genitori sull’uso dei Social da parte dei figli, e più in generale dei telefonini, deve essere attento, persistente, teso a salvaguardare il minore da una alienazione intellettuale che crea una sorta di dipendenza psicologica dai social network, trasformandoli in specchi deformanti della propria identità.
È sbagliato consentire ai propri figli di mettere sui social fotografie ammiccanti, estetizzanti, incentrate sulla fisicità dei ragazzi, perché ciò trasforma l’apparenza delle forme in identità esistenziale, cristallizzando la pericolosa convinzione per la quale le proprie credenziali relazionali dipendono dalla capacità di imporre la propria immagine, di volta in volta abbellendola, rendendola più seducente, più maliziosa, più allusiva, più appetibile.
Il cyberbullismo
La Legge 29 maggio 2017 n. 71 ha scelto di non enucleare una nuova fattispecie di reato per il cyberbullismo, limitandosi a dare un’articolata definizione delle condotte che possono integrare la fattispecie, il cui epicentro disvaloristico va identificato per l’appunto nella condotta di aggressione discriminatoria, derisoria, violenta attuata con strumenti telematico-informatici contro una persona vulnerabile. Ed è veramente interessante rilevare come la Legge rinvenga l’ ”ubi consistam” della condotta criminosa nella pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto di identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali, condotte tutte queste realizzate per via telematica con lo scopo intenzionale predominante di isolare un minore, o un gruppo di minori, ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso o la loro messa in ridicolo.
Vittime sacrificali di queste condotte sono sempre le persone vulnerabili, concetto enucleato nella Legge del 23 giugno 2017 n.103, che tratteggia l’esigenza di tutela che la vulnerabilità, quale categoria esistenziale, deve ricevere in una società democratica.
L’Europa non è soltanto spread e cieco rigore, ma anche elaborazione e culminazione storico-politica di principi liberali, figli di duecento anni di costituzionalismo europeo e della millenaria cultura del nostro continente.
La vulnerabilità non definisce una “inferiorità”, ma piuttosto una “fragilità” che è elemento di ricchezza esistenziale e financo di riequilibrio sociale ed etico, laddove è proprio lo sguardo sulla vulnerabilità che ci riconduce alla nostra intima essenza, alla tragicità della vita, al dolore quale dimensione immanente nell’umano.
Ma attenzione, a non trasformare lo sguardo dolente in sguardo indulgente. È vulnerabile la vittima minorenne del reato ed è vulnerabile l’autore minorenne del reato, con una differenza ontologica, che non può essere annullata in una osmosi giustificazionista: l’autore del reato ha realizzato una lesione civica ed esistenziale, la vittima l’ha subita.
Caratteristiche tipologiche del delitto di “atti persecutori”, sub specie di “bullismo” e “cyberbullismo”, sono la a) intenzionalità del comportamento lesivo, b) la sua persistenza nel tempo e c) l’asimmetria nella relazione tra il soggetto attivo del reato e la vittima, profilo questo che si incentra per l’appunto sulla nozione di vulnerabilità.
E’ importante rilevare come la scienza pedagogica e la psicologia suggeriscano tecniche di contrasto al fenomeno del “bullismo” incentrate sul dialogo, ovviamente un confronto dialettico di valenza pedagogica e civica, ritenendo non semplicemente inutili ma vieppiù dannosi interventi correttivi autoritari ed umilianti per lo stesso “bullo”, interventi che finirebbero per riposizionare la “forza” quale epicentro di ogni azione umana, legittimando la violenza.
Al riguardo rileva la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, sez. VI del 14 giugno 2012, laddove sia pur opinando sul tema dell’ “abuso dei mezzi di correzione”, la Corte di Cassazione evidenzia come la violenza sia reietta dall’ordinamento sempre e comunque, anche quando eventualmente volta a conformare un atteggiamento a sua volta violento e pregiudizievole.
Intendo tuttavia sottolineare come tale impostazione, certamente giusta alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento in senso personalistico, non possa tuttavia prescindere dalla corretta introiezione della propria responsabilità da parte dell’autore del reato, non già declinata come mera ammissione confessoria del fatto, quanto come focalizzazione intellettuale e morale, mentalizzazione del disvalore intrinseco dell’agito violento posto in essere.
La asimmetria tra autore e vittima del reato non deve d’altronde individuare necessariamente la persona offesa come “soggetto debole” in quanto affetto da una problematica fisica, psichica o comportamentale, laddove la vulnerabilità di un essere umano può non precedere il fatto – reato, ma esserne piuttosto la diretta conseguenza, quale effetto di una condotta violenta, che finisce per deprivare una persona della sua stessa capacità reattiva. La vulnerabilità è anche e soprattutto incapacità di accedere alla logica della violenza, e questo atteggiamento in un mondo dominato dall’idea della forza rende già di per se vulnerabili coloro che intendono sottrarsi, o che naturalisticamente si sottraggono, ad un’idea suprematista ed agonistica della vita.
Punire non significa odiare
Ciò che è importante nell’intervento di ortopedia giurisdizionale di questa pregnante devianza giovanile, è non inoculare nel “bullo” il convincimento che i comportamenti devianti debbano essere corretti e puniti attraverso una forma “legale” di violenza, poiché altrimenti l’autore del fatto finirà per focalizzare la “forza” come invariabile elemento qualificante della relazione, verificando se stesso nel diverso ruolo di autore del fatto, imputato e condannato, sempre nei termini titolare o vittima della “forza”, di volta in volta agita o subita.
Il riposizionamento prospettico che deve attuare la giurisdizione, pertanto, non è la mera inflizione della pena, che pur deve conservare una sua rilevanza, ma la stimolazione del processo introiettivo sulla propria responsabilità morale, prima ancora che penale.
Questo processo di mentalizzazione determina la ri-umanizzazione della vittima e dello stesso autore del fatto, che finalmente possono guardarsi negli occhi, riconoscendo la rispettiva umanità.
La giurisdizione minorile, pertanto, deve porre al centro del proprio impegno la riattivazione dell’umanità sepolta sotto quelle sovrastrutture psicologiche, sociali, familiari, che totemizzano la violenza quale strumento di predominio e di affermazione dell’ Ego, quale misura della relazione.
Punire non significa odiare, ma ricondurre l’autore del fatto alla propria responsabilità, che può essere rinascita. Questo il senso del mio impegno di Ppgocuratore della Repubblica per i Minorenni. Nessuna indulgenza, nessun astratto perdonismo ideologico, ma piuttosto rigore ed umanità.
Il cyberbullismo
La sistematica reiterazione degli agiti descritti dall’art. 1 della Legge 71/2017 produce il delitto di cyber-bullismo, che viene conglobato, assumendone la forma, nel delitto di stalking di cui all’art. 612 bis c.p., punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.
Fattispecie ricorrenti nella prassi sono la dolosa e programmata esclusione da una chat di classe di un minore in esito ad una sistematica attività di dileggio, di persecuzione, di messa in ridicolo, ovvero la diffusione di immagini intime e scabrose di ragazze che hanno realizzato video sessuali trasmettendoli al proprio fidanzatino, che poi ne fa uso sessista e maschilista, divulgandole a più persone, nonché l’ auto-ripresa filmica di gesta vandaliche o di prevaricazione, anche nei confronti dei docenti, l’ estorsione di piccole somme di denaro richieste ad un compagno di classe “debole”, che per procacciarsele, e sfuggire alle paventate ritorsioni, finisce per rubare in casa.
Ancora, la “violenza di gruppo” contro un compagno di scuola “vulnerabile”, preso di mira perché “diverso”, perché malato, perché esteticamente fragile, perché “solo”.
Molto ricorrenti nella prassi giudiziaria sono le violenze sessuali, anche di gruppo, attuate nei confronti di amiche e compagne di scuola per lo più in circostanze ludiche.
Queste condotte tradiscono una introiezione sessista, maschilista, predatoria, genitale, estetica ed irrelazionata della sessualità, vissuta ancora una volta dal “giovane maschio” come mero atto di “predominio violento” nei confronti della minore persona offesa, reificata in un ruolo servente. Il “consenso” al compimento di ogni atto sessuale desiderato ed imposto dal “giovane maschio” viene dato per presunto ed immanente nella “situazione di pericolo” che la ragazza ha accettato.
Quasi un “dolo eventuale” della persona offesa, una “accettazione del rischio” che per il maschio minorenne diviene “consenso implicito”: una sorta di pernicioso “situazionismo” auto-assolutorio laddove il consenso della ragazza a “collocarsi in quella determinata situazione di pericolo” viene ad essere interpretato come una scriminante a compiere qualsiasi atto sessuale, ovvero a compiere atti sessuali diversi e più invasivi da quelli espressamente assentiti.
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