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Nonostante i moniti del Colle durante l’estate e del ministro Nordio, la prorogatio del Csm uscente prosegue, pur coi 20 togati già eletti. Mancano ancora i 10 laici, la cui seduta di nomina è slittata a gennaio.
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Rinvio provvidenziale, secondo fonti politiche sia di maggioranza che di opposizione, perchè ancora non c’è accordo sui candidati da nominare. Intanto, 20 neo consiglieri togati continuano a lavorare nelle loro sedi.
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Nell’elenco pubblico, i 105 nomi sono tutti di “autocandidati”, il che vuol dire che nessun partito è ancora venuto allo scoperto con il suo candidato, sostenuto dalle 10 firme di due gruppi parlamentari.
Tutto rimandato al 2023, perchè il governo ha l’emergenza della legge di Bilancio da approvare e non si può perdere nemmeno una seduta, soprattutto per votazioni che si preannunciano complicate. È così che il parlamento in seduta comune per eleggere i 10 consiglieri laici del Consiglio superiore della magistratura è stato rinviato per la seconda volta: prima doveva essere in settembre, ma ha prevalso la volontà di far scegliere i laici al nuovo parlamento; poi era stato fissato il 13 dicembre, ora tutto è slittato al 17 gennaio.
Rinvio provvidenziale, secondo fonti politiche sia di maggioranza che di opposizione, perchè ancora non c’è accordo sui candidati da nominare. Intanto, 20 neo consiglieri togati continuano a lavorare nelle loro sedi: eletti il 18 settembre, difficilmente vedranno palazzo dei Marescialli prima di fine gennaio. Con un interrogativo: «Un giudice darà mai torto a un collega che a breve deciderà sulla sua carriera?», si è chiesto il deputato di Azione, Enrico Costa, riferendosi al fatto che il Csm ha funzione disciplinare e di nomina dei magistrati.
In questo limbo, il Csm uscente – il più funestato dagli scandali, dal caso Palamara alla loggia Ungheria – ha fatto in tempo a fissare anche le sedute di gennaio 2023 e ad approvare il bilancio di previsione per l’anno successivo, portando la durata della sua prorogatio a quattro mesi. Questo nonostante i numerosi moniti del Colle, che si era adoperato a inizio estate per imprimere una accelerazione alle elezioni dei togati e aveva auspicato il rapido insediamento del nuovo Consiglio.
Il vicepresidente tutt’ora in carica, David Ermini, ha fatto sapere che le entrate del Csm «vengono confermate» in 32,5 milioni di euro, ma sottolinea la spending review dell’organo di rilevanza costituzionale: la spesa per componenti e personale ausiliario è rimasta invariata rispetto al 2022, nonostante i consiglieri siano aumentati da 24 a 30, «a seguito dell'entrata in vigore della riforma Cartabia, che ha disposto anche la riduzione delle indennità per i lavori del Consiglio, così realizzando economie virtuose».
I nuovi consiglieri, quando finalmente si insedieranno, guadagneranno meno dei loro predecessori: la riforma, infatti, ha imposto il tetto dei 240mila euro lordi annui per tutti i componenti, mentre gli uscenti avevano un compenso base di 141 mila euro per i togati e 180mila per i laici, a cui si sommavano circa 90 mila euro di indennità di seduta. Oltre ad una indennità di fine mandato, prevista solo per i laici, di 175 mila euro.
Il regolamento
«È ancora tutto per aria», dice una fonte parlamentare che segue da vicino le elezioni, «anche se è sempre così: spesso i togati si scelgono all’ultimo momento». Eppure, un posto a palazzo dei Marescialli è ambitissimo e non solo per lo stipendio: il Csm è un crocevia di notizie e informazioni a cavallo tra la politica e la giustizia, soprattutto in anni in cui il rapporto tra i due poteri è stato di scontro.
La composizione dell’organo dà la maggioranza dei due terzi ai togati, tuttavia l’esito del voto non ha dato un orientamento netto: 7 eletti per i conservatori di Magistratura indipendente; 6 per la sinistra di Area; 4 per i centristi di Unicost, 1 a Magistratura democratica e due indipendenti. Così, nel nuovo plenum, il voto e il posizionamento dei 10 laici sarà ancora più importante. Inoltre, il vicepresidente del Csm è per legge scelto tra i laici e diventa il diretto referente del Quirinale, cui spetta la guida dell’organo.
A poter concorrere al ruolo di laici sono avvocati con 15 anni di attività effettiva o professori di materie giuridiche, scelti anche tra i parlamentari. Tuttavia, la riforma Cartabia ha modificato anche le modalità di scelta del parlamento, imponendo due criteri: «trasparenza» e «rappresentanza di genere», la cui realizzazione è demandata alla presidenza della Camera.
Per questo, Lorenzo Fontana ha emanato un regolamento, che prevede che tutti gli aspiranti si autocandidino o vengano candidati da almeno 10 parlamentari di due gruppi diversi e che «deve appartenere al genere meno rappresentato al meno il 40 per cento dei candidati». L’atto ha però sollevato perplessità: anche se la quota del 40 per cento non fosse raggiunta, si procederebbe comunque alle votazioni. Inoltre, la quota di genere è prevista solo per le candidature e non per l’elezione dei 10 laici. Risultato: con tutta probabilità, l’esito sarà di dieci uomini su dieci, come è stato anche con gli otto laici eletti nel 2018.
La fila degli ex
Ora i termini per la presentazione delle candidature verrà prorogato, probabilmente fino al 14 gennaio. Delle dieci nomine, 3 spetteranno a FdI, 2 rispettivamente a Lega e Forza Italia e 3 alle opposizioni. L’elenco pubblico sul sito della Camera si allunga di giorno in giorno e ad oggi è arrivato a 105 candidati, tra i quali compaiono molti nomi noti.
Numerosi i forzisti, con gli europarlamentari Riccardo Ventre e Luigi Florio; i candidati non eletti Beatrice Rinaudo e Antonio Ciarambino; l’ex avvocato di Silvio Berlusconi e parlamentare Gaetano Pecorella; e l’ex deputato Ciro Falanga. Tra i politici, spiccano anche il segretario leghista di Barletta, Giovanni Riviello e l’ex deputato di Alleanza Nazionale Antonino Lo Presti. Per i centrosinistra, invece, ci sono i nomi degli ex parlamentari dell’Ulivo, Stefano Passigli e Fabrizio Cesetti. Nell’elenco spuntano anche i nomi di avvocati noti, come il radicale Giuseppe Rossodivita, il legale delle cause contro il Movimento 5 Stelle, Lorenzo Borrè, il penalista che difese la famiglia Moro nel processo contro le Br, Valter Biscotti e il matrimonialista romano Alessandro de Belvis.
C’è un però: tutti loro sono “autocandidati”, il che vuol dire che nessun partito è ancora venuto allo scoperto con il suo candidato, sostenuto dalle 10 firme di due gruppi parlamentari. Infatti, sottotraccia si fanno i nomi soprattutto di ex parlamentari storici o non rieletti a settembre: Alfredo Cucca per il Terzo Polo, l’ex deputato di An Giuseppe Valentino per FdI, gli ex forzisti Roberto Cassinelli e Fiammetta Modena e Franco Vazio per il Pd.
Può essere che, per scelta strategica, i partiti preferiscano far autocandidare i loro laici così da confonderli nel mucchio per non bruciarli. Oppure, i nomi veri verranno presentati nell’elenco solo a ridosso del voto e l’oltre centinaio di autocandidati sarà stato un utile diversivo. In ogni caso, l’impressione è che tutti i partiti stiano dando la precedenza al criterio politico, che non esclude quello della competenza ma di certo lo supera.
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