La sentenza della corte di Giustizia dell’Ue stabilisce che la privacy dei cittadini può essere violata solo in casi di reati «gravi» e che non può farlo il pubblico ministero, perché il suo ruolo non è di imparzialità
- La sentenza che interpreta le norme sulla privacy è stata emessa su richiesta di un giudice estone ma è vincolante anche per la giurisprudenza italiana. Prevede limitazioni all’invasione della privacy e stabilisce che il pm non è soggetto terzo che può farlo.
- La pronuncia mette in discussione anche la legge Spazzacorrotti, che prevede l’uso delle intercettazioni “a strascico”. Secondo la corte lussemburghese, invece, prima bisogna individuare il reato e solo poi procedere ad acquisire i dati.
- Possibili conseguenze anche sul caso Palamara: il magistrato potrebbe contestare l’utilizzo delle intercettazioni in un procedimento disciplinare e il fatto che siano state acquisite conversazioni senza rilievo penale quindi fuori dai «reati gravi».
Le intercettazioni devono essere utilizzate in caso di reati «gravi» e il pubblico ministero non può operare sui dati personali dei cittadini, perché rappresenta l’accusa e quindi non è imparziale rispetto all’imputato. Questi sono solo due dei profili più clamorosi di una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea depositata il 2 marzo, che rischia di terremotare la prassi italiana in materia di privacy e provocare conseguenze anche sul caso Palamara.
La sentenza numero C-746/18 della corte è vincolante per la decisione del giudice estone che ha sollevato la questione, ma anche per i casi in altri stati europei in cui si applicano le medesime norme. Dunque ha un peso giurisprudenziale determinante anche nei processi italiani che riguardano l’utilizzo di dati elettronici personali, come intercettazioni e chat.
Il giudice estone ha posto due questioni con riferimento alla direttiva Ue del 2002 sul trattamento dei dati personali. La prima, se il trattamento di questi dati possa essere fatto dal pubblico ministero; la seconda, se questo utilizzo possa riguardare anche finalità estranee ai gravi reati di criminalità.
A entrambe le domande la risposta è stata negativa: secondo la corte, infatti, le norme europee in materia di privacy devono essere interpretate nel senso che solo un’autorità terza e imparziale può autorizzare l’accesso ai dati elettronici e il limite del loro utilizzo è la prevenzione gravi forme di criminalità o gravi minacce alla sicurezza pubblica.
Le conseguenze in Italia
Nel nostro paese, questa sentenza ha effetti dirompenti perché mette in discussione il ruolo del pm. La sentenza stabilisce che la direttiva Ue in materia di privacy, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali, «deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale renda il pubblico ministero, il cui compito è di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale».
Questo per una ragione precisa: è necessario un bilanciamento tra i poteri di chi accusa e la tutela della privacy dei cittadini, dunque l’autorizzazione all’accesso ai dati personali deve essere disposta da un soggetto che sia imparziale.
Tradotto: ai giudici europei non interessa che in Italia non ci sia separazione formale tra le carriere di pm e di giudice, ma stabiliscono che chi può incidere sulla privacy dei cittadini sia solo un soggetto che nel processo sia in posizione di terzietà.
Inoltre, la pronuncia mette in discussione anche la legge Spazzacorrotti, che allarga l’utilizzo dei trojan ai reati contro la pubblica amministrazione e permette l’utilizzo delle intercettazioni anche per reati che non le prevedono, se questi reati vengano “scoperti” ascoltandole.
Il caso Palamara
I giudici europei invece stabiliscono che la privacy dei cittadini può essere violata solo per reati «particolarmente gravi» ed esemplifica quelli di «terrorismo». Inoltre, fissano un principio: prima il reato deve essere identificato e solo poi si può procedere ad acquisire i tabulati. Esattamente ciò che non accade con la norma sulle cosiddette intercettazioni “a strascico”.
Questo rischia di riaprire il caso Palamara, perché i giudici europei scrivono che i dati elettronici personali possano venire acquisiti solo per reati gravi e questo potrebbe escludere il loro utilizzo nel procedimento disciplinare, dove sono state usate anche le chat che di per sé non avevano rilevanza penale.
I presupposti per una rivoluzione dell’intera normativa sull’utilizzo delle intercettazioni in senso restrittivo ci sono tutte, come anche il rischio che questa sentenza europea diventi il grimaldello per sostenere l’inutilizzabilità delle captazioni informatiche in moltissimi procedimenti. Di fronte alla necessità di mettere ordine, l’ipotesi è quella che intervenga la Cassazione a Sezioni unite, che in una prossima sentenza faccia propria la pronuncia europea e fissi nuovi paletti alla prassi italiana.
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