Al terzo giorno di scontro con la magistratura dopo la mancata convalida dei trattenimenti in Albania, il mantra del governo continua a essere quello di tenere alti i toni. E non accenna a placarsi quello che ormai è un conflitto tra poteri in piena regola: da una parte le toghe, dall’altra l’esecutivo.

La narrazione alimentata prima dalla premier Giorgia Meloni e poi da entrambi i vicepremier, è quella del ritorno delle «toghe rosse», identificate nei magistrati di Magistratura democratica (fanno parte di questo gruppo sia Silvia Albano, che ha scritto la sentenza del tribunale di Roma, sia il sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, autore della mail pubblicata sul Tempo e ripresa dalla premier) con l’obiettivo di sovvertire il voto popolare.

«C’è un piccolo gruppo, una corrente che si chiama Magistratura democratica, storicamente legata all’allora Partito comunista, che prima attaccava Silvio Berlusconi e ora attacca Meloni», ha detto Antonio Tajani al Corriere della Sera. Mentre, a margine di un evento a Milano, Matteo Salvini ha sostenuto che Patarnello, «ennesima toga schierata contro il centrodestra», «andrebbe licenziato in tronco, perché dimostra di non avere equidistanza e serenità».

La senatrice di Avs, Ilaria Cucchi, invece, ha presentato un esposto in procura contro la pubblicazione della mail, che era «una corrispondenza privata, contenente opinioni personali». In questa polarizzazione, a sparire del tutto è il merito della vicenda: la motivazione di una decisione del tribunale di Roma, che è stata presa alla luce del diritto europeo e che era già stata anticipata dal dibattito giuridico intorno ai centri per migranti in Albania.

L’effetto politico tuttavia, è un cortocircuito tra istituzioni. Ma anche dentro la magistratura – che non è un blocco monolitico – iniziano a emergere divisioni.

Divisioni tra toghe

Le prime ripercussioni si hanno proprio dentro i gruppi associativi. Magistratura democratica ha difeso i colleghi e in particolare Patarnello, parlando di «surreali strumentalizzazioni del contenuto di una riflessione», con reazioni «esorbitanti rispetto a ciò che realmente è stato scritto» e sottolinea che «un complotto non si prepara annunciandolo in una mailing-list».

Una presa di posizione opposta, invece, è arrivata dalla corrente conservatrice di Magistratura indipendente, che è intervenuta riprendendo le affermazioni di Patarnello: «Il presidente del Consiglio, di qualsiasi partito politico, non è mai un avversario da fermare o da combattere, ma un interlocutore istituzionale da rispettare. Sempre». Non farlo significa «indebolire la funzione giudiziaria», perché «essere e apparire indipendenti è la prima condizione per la credibilità della magistratura, che mai deve essere coinvolta nelle contingenti vicende e contrapposizioni politiche».

Proprio questa diversità di vedute sarà almeno parzialmente al centro di un dibattito che presto vedrà coinvolte le toghe: a fine gennaio l’Anm eleggerà il suo nuovo “parlamentino” e in pole position per la successione di Giuseppe Santalucia (espressione di Area) ci sarebbe l’attuale segretario di Mi, Claudio Galoppi.

Gli altri gruppi hanno scelto di commentare criticamente solo gli attacchi alla sentenza di Roma. Area, corrente progressista, ha scritto che «il nostro timore è che la reiterata richiesta di apparire imparziali ci riduca a professare una imparzialità solo apparente, ma a praticare una giurisdizione addomesticata». Su questa linea è anche la corrente centrista di Unità per la Costituzione, secondo cui c’è il rischio che si arrivi a sostenere «che il giudice dovrebbe violare la legge, anche sovranazionale, per allineare l’azione giudiziaria all’indirizzo politico del governo».

Intanto però le parole dure usate dal ministro Carlo Nordio – che ha parlato di decisione «abnorme» – rischiano di generare un cortocircuito. Il consigliere del Csm in quota Italia viva, Ernesto Carbone, ha annunciato la richiesta di un fascicolo a tutela di Albano, dopo gli attacchi per la mancata convalida del trattenimento dei migranti. Un atto dalla sostanza politica, che sarà inevitabilmente rivolto a stigmatizzare proprio le dichiarazioni del Guardasigilli e che potrebbe dividere il Consiglio.

la riforma della giustizia

Gli effetti dello scontro, però, stanno già dispiegando i loro effetti indiretti, spingendo la maggioranza a procedere a tappe forzate per la riforma costituzionale della separazione delle carriere tra giudici e pm. Partita in sordina e avversata dalle toghe, sembrava essere la Cenerentola accanto alle riforme del premierato e dell’autonomia differenziata. Invece il disegno di legge costituzionale, spinto in particolare da Forza Italia, «a oggi è l’unico con reali possibilità di andare in porto, passerà davanti al premierato», spiega una fonte qualificata al governo.

Due le ragioni: da un lato le aperture positive dei centristi di Azione e Italia viva, dall’altro il fatto che la separazione delle carriere sia ormai diventata l’arma perfetta per il contrattacco nei confronti delle toghe. Anche se la maggioranza – nei momenti di calma – ha sempre sostenuto che non si tratti di una riforma punitiva, ormai il tic è evidente: quando cresce la tensione con i magistrati, la risposta del centrodestra è quella di sventolare la riforma e così è successo anche ieri, dal sottosegretario Tullio Ferrante al capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti, fino al responsabile dell’organizzazione di FdI Giovanni Donzelli.

Fonti parlamentari confermano: la separazione delle carriere arriverà in aula alla Camera a inizio dicembre e nemmeno la legge di Bilancio ne arresterà il percorso a tappe forzate. L’obiettivo è di approvarla in prima lettura entro fine anno.

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