Giorgia Meloni ha deciso di voler vedere le carte: oggi i parlamentari di centrodestra sono tutti tassativamente precettati in aula alla Camera, dove si svolgerà il voto in seduta comune per eleggere il giudice costituzionale che, dopo 9 mesi di vacanza, prenderà il posto di Silvana Sciarra.

Il nome prescelto è quello del suo consigliere giuridico, il costituzionalista Francesco Saverio Marini, e la scommessa sa di prova di forza: le votazioni andate a vuoto sono già state sette, complice il fatto che per eleggere il giudice serve la maggioranza qualificata di tre quinti, tanto da far sospettare che il centrodestra puntasse a trascinare la scelta ancora per due mesi. Quando, il 21 dicembre, termineranno il mandato altri tre giudici di nomina parlamentare, permettendo così la nomina “a pacchetto” di tutti e quattro.

Invece, Fratelli d’Italia ha deciso per il colpo di mano nelle ultime 72 ore e filtra la convinzione di avere raccolto la manciata di voti mancanti per arrivare ai 363 voti necessari. L’accelerata, secondo fonti parlamentari, corrisponderebbe alla necessità di avere un giudice d’area a presidiare la scelta determinante per il governo a cui viene chiamata la Consulta il 12 novembre: l’udienza sul ricorso costituzionale delle regioni sull’autonomia differenziata. Un solo giudice certo non sposta le maggioranze interne e le decisioni della Corte sono sempre collegiali, ma certo avere occhi e orecchie a palazzo della Consulta non è cosa da poco.

I numeri

Sul fronte delle opposizioni, tutto è ancora fluido e lo rimarrà fino al voto – questa mattina alle 12.30 – ma per tutta la giornata l’accordo di non entrare in aula ha retto tra Pd, Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Azione, Avs e Più Europa. Con una defezione illustre: l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini ha annunciato che invece entrerà per rispetto alla richiesta del Colle di eleggere il giudice, anche se non voterà il nome della maggioranza.

Dal centrodestra nessuno si sbilancia nell’assicurare la riuscita della mossa orchestrata da Meloni, che si è anche adirata coi suoi quando la notizia della precettazione per il voto è uscita sui giornali, tanto che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato un singolare esposto in procura per scoprire le talpe traditrici. L’intenzione, infatti, era di tenere tutto coperto per non bruciare Marini, che comunque girava già da mesi come il più papabile.

Contando sul pallottoliere parlamentare, alla maggioranza servono almeno otto voti esterni per arrivare a 363. Di più se, come fisiologico, non tutti potranno essere in aula anche se la precettazione è stata tassativa. La manciata di voti – una decina per essere tranquilli, ma virtualmente anche meno – si dovrebbe trovare nel gruppo misto di entrambi i rami del parlamento, dove a favore di Marini potrebbero votare le ex Azione Mara Carfagna, Giusi Versace e Maria Stella Gelmini, Lorenzo Cesa, Andrea De Bertoldi (ex FdI), Francesco Gallo e Antonino Minardo. Sarà assente dall’aula invece l’ex Italia Viva, Luigi Marattin.

Per una mera ragione di calcolo, dunque, i restanti voti andranno trovati in altri gruppi. Uno degli “indiziati” è quello delle Autonomie, dove vige il principio della libertà di orientamento. Non saranno in aula i due senatori trentini, Piero Patton e Luigi Spagnolli, il quale ha commentato che «dopo essere stato diligentemente presente e votante le volte precedenti non andate a buon fine per mancanza di volontà di trovare un nome concertato, ritengo non sia serio andarci un'altra volta nelle stesse condizioni. Se la maggioranza trova i numeri per votarselo, lo faccia; ma se ha bisogno del mio voto non può dare per scontato un suo candidato di parte, peraltro non privo di criticità». Meno chiaro, invece, è il comportamento che terranno l’eletto valdostano e i cinque altoatesini della Svp, dove però due sarebbero orientati a non votare.

i rischi

Questo lo scenario: se tutta la maggioranza si presenterà compatta, quattro voti spuntassero dalle autonomie e altri sette del misto, la soglia del 363 sarebbe raggiungibile. Sul filo del rasoio, però.

Eppure, fonti a palazzo della Consulta sono convinte che l’azzardo di Meloni riuscirà e Marini siederà tra i quindici giudici costituzionali, portando avanti la tradizione di suo padre Annibale. Questo ma soprattutto un altro è il profilo di inopportunità a cui fanno riferimento le opposizioni nell’indicazione del nome di Marini: la sua strettissima vicinanza con Meloni, tanto da essere notoriamente il padre della riforma del premierato, che presto o tardi arriverà davanti alla Consulta. «Un evidente conflitto d'interessi», l’ha definito il verde Angelo Bonelli, con l’obiettivo di «fermare i referendum» su autonomia, premierato e cittadinanza, ha aggiunto Riccardo Magi di Più Europa.

Il punto politico, però, è anche un altro: Meloni sta tentando un azzardo di quelli che, se non riescono, rischiano di fare molto male. Se davvero i voti extra maggioranza si sono trovati come la volontà di tirare dritto di FdI fa intuire, il rischio allora è un altro: il voto è segreto e, nel buio dell’urna, i franchi tiratori si svegliano. Gli stessi, forse, che hanno divulgato le chat interne su cui si organizzava il blitz. Fonti di FdI spiegano come per Meloni questo voto sia ormai diventato una questione di principio, oltre che una messa alla prova della maggioranza.

Il voto andato deserto per ben sette volte, dunque, ora diventa una doppia sfida di compattezza: per il centrodestra ma anche per le opposizioni. Per ora l’accordo sul non voto regge anche con Iv e Azione, ma basta un battito d’ala altrove – nelle commissioni parlamentari o nel tavolo dell’alleanza emiliana– perché vacilli.

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