- Nel caso della sentenza di Viareggio la prescrizione non c’entra nulla. Si è trattato di una questione attinente alla correttezza della qualificazione giuridica e non al trascorrere del tempo.
La riforma Bonafede, che dopo la sentenza di primo grado (si badi bene, di condanna o assoluzione che sia) concede alla pretesa punitiva un tempo infinito per colpire o fallire, in entrambi i casi tragicamente.
- Il codice di procedura penale non è, ormai bisogna dire non dovrebbe essere, la Magna Carta delle vittime. Esistono i diritti degli imputati, che non sono quelli solo di Caino, ma sono di tutti.
29 giugno 2009, Stazione di Viareggio, un incidente ferroviario coinvolge una cisterna contenente gas, la cui fuoriuscita produce un’esplosione ed un incendio, che dilaga nelle aree abitate provocando la morte di 32 persone e molti feriti. Questo il tragico fatto da cui origina un processo terminato con la recente sentenza della Cassazione che ha confermato per taluno una parte dell’impianto accusatorio, quella relativa al disastro ed all’incendio, mentre ha dichiarato estinti per prescrizione gli omicidi colposi.
La pronuncia ha offerto il destro ad un coro di commenti sdegnati dall’effetto salvifico del decorso del tempo ed inneggianti invece al nuovo corso intrapreso dalla riforma Bonafede, che dopo la sentenza di primo grado (si badi bene, di condanna o assoluzione che sia) concede alla pretesa punitiva un tempo infinito per colpire o fallire, in entrambi i casi tragicamente.
La prescrizione non c’entra
Commenti sdegnati, per tacer di quelli volgari, che però non tengono conto del fatto che nel caso di specie la prescrizione non c’entra nulla: mentre una parte dell’ipotesi d’accusa ha avuto sbocco nella condanna, quella relativa agli omicidi colposi non può vantare la stessa sorte poiché non è stata riconosciuta l’aggravante della violazione di norme relative alla sicurezza sui luoghi di lavoro.
In presenza di tale aggravante, francamente difficile da riconoscere con riferimento a decessi avvenuti al di fuori del suo perimetro tipico, la normativa concede un raddoppio del tempo necessario a prescrivere e, se la tesi prospettata dai Pubblici Ministeri si fosse rivelata corretta, non vi sarebbe stata la neutralizzazione di una parte del capo d’imputazione.
Si è trattato di una questione attinente alla correttezza della qualificazione giuridica e non al trascorrere del tempo. Un approccio razionale imporrebbe pertanto di chiedersi, magari per escluderlo, se gli inquirenti non siano stati giuridicamente troppo ambiziosi, senza trasformali in eroi eponimi sconfitti da norme inique e senza descrivere un processo, che di colpevoli ne ha trovati e di risarcimenti ne ha dati (perché non sono travolti dalla prescrizione), come un luogo in cui “li hanno uccisi due volte”, come si usa urlare con reiterazione ormai rituale e meta-processuale in occasioni di questo genere.
C’è da chiedersi, magari per escluderlo ancora una volta, se le persone offese non siano state frustrate da aspettative dalle fondamenta non solidissime.
Le radici dell’ingiustificata (ed ingiusta) reazione scandalizzata o scandalistica sono tre: l’empatia di massa, l’inadeguatezza in nuce del processo penale ad affrontare fatti di questo genere, la totale dimenticanza dei diritti dell’imputato, che sono diritti di tutti.
L’empatia di massa
Non stupisce che le opinioni raziocinanti siano poche e che il diritto abbia trovato maggior voce (almeno secondo l’opinione di chi scrive) in Cassazione, luogo nel quale le emozioni o i sentimenti fanno più fatica ad accedere. I processi per eventi così gravi e diffusi soffrono infatti di un doppio danno da emotività, per così dire.
Il primo, tipico di tutti i fatti di reato, è legato ai parenti delle vittime ed alla loro disperazione, senza dubbio da rispettare, ma che non ha e non deve avere alcuna valenza giuridica. La volontà di riparazione è insaziabile per definizione, neanche la morte del presunto colpevole può restituire una persona cara ed il diritto non si occupa dell’irrealizzabile ed in ogni caso non è vendetta.
Al di là e al di sopra dell’emotività di chi è direttamente colpito vi è un’immanente empatia di massa, ancor più pericolosa perché si estende, serpeggiante ed impalpabile, anche ai soggetti terzi che commentano o giudicano. Questo avviene perché nei fatti come quello di Viareggio non vi è, per così dire, un altro da sé: in quella stazione, in quella strada, in quella cucina, in quella culla siamo tutti, potremmo esserci o esserci stati tutti.
E non esiste un autore della strage, ma una serie di antecedenti causali inestricabile e che non ha nulla di immediatamente comprensibile.
Per essere più chiari, quando stuprano la ragazzina nel festino a base di droga la maggior parte dei genitori pensa che la loro figlia non va in quei luoghi e che non rischia, che la vittima non è e non potrà mai essere lei. Anzi, parlando oggettivamente della mente dei più, può scattare il semplificante o deteriore meccanismo contrario del “se l’è andata a cercare”.
Quando truffano qualcuno il retropensiero è sempre che il truffatore è un delinquente, ma che noi non ci saremmo cascati: la vittima è fragile, non siamo mai “noi”. Ma quando il rischio non è legato all’iterazione con un carnefice definito, ma a fattori quali ad esempio la tecnica o le sostanze nocive ed in generale alle conseguenze di attività lecite che attengono alla quotidianità di un’intera comunità, allora il giudizio di ognuno non può che essere viziato da un coinvolgimento inevitabile: poteva capitare a noi, poteva capitare alle persone che amiamo. E dunque lo shock della prescrizione diventa collettivo e influisce prima, durante e dopo il processo.
È la cosiddetta, per dirla con Ulrich Bech, "seconda modernità”, quella che non si preoccupa più della distribuzione di risorse, ma della distribuzione di rischi invisibili, generalizzati, incontrollabili e, soprattutto, inaccettabili.
Ed ecco che l’emotività di massa, amplificata ed alimentata dai media, non solo influisce sul giudizio, ma altresì chiede al processo penale risposte e pacificazioni che non può, per sua stessa natura, dare. Si chiede troppo, ci si aspetta troppo, e anche se vi sono condanne e risarcimenti non basta, non basta mai.
L’inadeguatezza del processo penale
Per giungere a risultati comunque ed inevitabilmente frustranti per le vittime e la collettività, il processo penale viene stressato all’ennesima potenza per due ragioni fondamentali.
Per rompere il sortilegio dell’invisibilità del rischio diffuso il giudice diventa dipendente dal sapere scientifico, circostanza che, già nella fase delle indagini con l’incidente probatorio, e dopo nel confronto tra esperti, dilata enormemente i tempi e le risorse da impiegare per giungere ad una verità oltre ogni ragionevole dubbio. Enorme (ed a volte velleitaria) è la fatica impiegata nel riconoscere nessi causali che nessuno ha visto e percepito e che debbono essere ricostruiti a posteriori a livello teorico.
Inoltre vi è la proliferazione dei soggetti responsabili, cui si addebitano fatti omissivi magari risalenti nel tempo ed il cui accertamento passa attraverso documentazioni e problemi normativi di non poco momento. Insieme agli imputati (nel caso di specie decine) ed agli enti coinvolti, riempiono le aule numerose parti civili. Tutte parti che hanno diritto ad una voce, ad uno o più consulenti ed a tutte le sacrosante facoltà previste da un rito che diventa biblico.
Il processo diventa un luogo affollato di donne e di uomini, ma nel quale la disumanizzazione è totale: si valutano teorie, leggi scientifiche, “non fatti” (omissioni), si sovrappongono i comportamenti concreti a gomitoli di regole di vario rango e di tale complessità che la colpa assume connotati astratti, scissi dalla persona dell’imputato. Non a caso i sistemi giuridici più evoluti e meno ipocriti del nostro hanno bandito “il colposo” dalle aule penali.
È discorso che non si può certo risolvere in poche righe ed in modo tetragono, ma tale scelta garantirebbe alle vittime maggiori chance di successo come minimo per via di una regola di giudizio, quella del “più probabile che non”, che rende la prova certamente meno faticosa in ambito civilistico.
Il ragionamento non può spingersi oltre in questa sede, ma lo spunto serve per sottolineare che gli operatori penalistici si destreggiano invece tra difficoltà tali che i risultati processuali diventano un fatto straordinario, a cui si dovrebbe plaudire, altro che urlare alla prescrizione “assassina due volte”. Un urlo ingiusto, barbaro.
La dimenticanza dei diritti dell’imputato
Se la criminalizzazione dell’estinzione dei reati per decorso del tempo è influenzata dall’emotività e non tiene conto dell’inadeguatezza ontologica del processo penale, in ogni caso e comunque bisognerebbe ricordare agli idolatri di “Bonafede” che il codice di procedura penale non è, ormai bisogna dire non dovrebbe essere, la Magna Carta delle vittime. Esistono i diritti degli imputati, che non sono quelli solo di Caino, ma sono di tutti.
La prescrizione è il tempo dell’oblio: segna il momento in cui lo Stato non ha più interesse o diritto ad esercitare la pretesa punitiva. Perché la Costituzione impone che l’eventuale pena sia rieducativa e, come tale, non possa giungere a grande distanza dalla commissione del reato, magari in presenza di un reo ex se reinserito e ormai alieno alla devianza. Perché la Costituzione cristallizza il diritto di difesa, che diventa difficile, se non impossibile, se l’accusa attiene ad eventi lontani.
La prescrizione è anche un presidio per il tempo del processo, che la Carta Fondamentale impone essere ragionevole per evitare che il rito che serve ad accertare la verità diventi un calvario. Sarebbe meglio dire “era” un presidio, perché la riforma l’ha resa all’uopo totalmente inefficace, togliendo al nostro ordinamento l’ultimo baluardo ed ogni residuo anticorpo.
La ragionevole durata del processo, che la normativa sovranazionale prevede come vero e proprio diritto soggettivo e che andrebbe garantita attraverso un meccanismo di decadenza dell’azione, non ha più alcuna tutela, nemmeno in quell’incerto e residuale usbergo rappresentato dalla c.d. “legge Pinto”.
Essa prevede un rimedio risarcitorio per chi subisce il danno dell’eccessivo tempo trascorso nelle aule dei tribunali in attesa di un giudizio. Tale rimedio si è rivelato totalmente inefficace, oltre a rappresentare a sua volta un carico per la giustizia: le stesse cause “da legge Pinto” durano troppo e danno origine ad ulteriori richieste risarcitorie; senza contare l’estrema difficoltà di aggredire i beni dello Stato da parte degli attori che ottengono ragione.
Il problema, per chi vivesse i diritti dell’imputato come un fatto distante, rischia di diventare pandemico inserito in un sistema già gravato da notevoli disfunzioni. Viviamo in un paese in cui il PM non è sottoposto al Ministro (come ad esempio in Francia), non è eletto (come ad esempio in America).
La condizione di autonomia, non necessariamente un male, impone il simulacro dell’obbligatorietà dell’azione penale, la quale però, essendo impossibile da attuare, rende la medesima azione di fatto discrezionale nelle mani di un organo privo di controllo sostanziale e di legittimazione politica. Il pan-penalismo non esenta dal rischio giudiziario nessuno. Se a tutto ciò si aggiunge la prospettiva di un processo infinito, è facile capire che ognuno di noi, Caino, Abele, colpevole, innocente, o semplicemente cittadino che sia, rischia di avere un’intera vita scandita dai rinvii di un processo, oltre alle ricadute generali in termini di efficienza amministrativa ed economica che ciò comporta.
Caduto anche l’argine della prescrizione il sistema è un mostro tentacolare, invisibile finchè non colpisce. Questo il vero pericolo collettivo da denunciare tutti i giorni, che deve produrre scandalo ed emotività diffusa, un vulnus più ampio e non meno tragico di certi fatti di reato per i quali da più parti si invoca vendetta.
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