- La disposizione ha equiparato l’infezione da Covid-19 contratta in occasione di lavoro o in itinere ad infortunio sul lavoro con causa virulenta.
- Così, è stato esteso l’ambito di applicazione soggettivo delle tutele INAIL a favore del lavoratore colpito dall’infezione o dei suoi familiari in caso di decesso del lavoratore stesso.
- Tuttavia il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte di INAIL, in caso di infortunio da Covid-19, non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale del datore di lavoro.
L’introduzione dell’art. 42 del d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. Cura Italia), convertito in legge con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020 n. 27, ha sollevato, nel corso di un anno di pandemia, un grande dibattito, tanto in ambito lavoristico quanto in quello penalistico, sulla responsabilità del datore di lavoro.
La disposizione, che ha equiparato l’infezione da Covid-19 contratta in occasione di lavoro o in itinere ad infortunio sul lavoro con causa virulenta, ha infatti esteso l’ambito di applicazione soggettivo delle tutele INAIL di cui al d.P.R. n. 1124/1965 a favore del lavoratore colpito dall’infezione o dei suoi familiari in caso di decesso del lavoratore stesso (seguendo la tecnica di regolazione già seguita per analoghe patologie con causa virulenta, come ad esempio la leptospirosi delle mondine).
Tuttavia, come chiarito dallo stesso Istituto, nella circolare n. 22 del 20 maggio 2020, il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte di INAIL, in caso di infortunio da Covid-19, non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale del datore di lavoro, essendo la responsabilità di quest’ultimo ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei Protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’art.1, co.14 del d.l. n. 33/2020, convertito dalla l. n. 74/2020.
Il civile
Sul versante civilistico, inoltre, nella menzionata circolare n. 22/2020 è stato ribadito che affinché lo stesso Istituto possa esercitare l’azione di regresso, nei confronti dei soggetti ritenuti civilmente responsabili, è necessario che il fatto costituisca un reato perseguibile d’ufficio.
Ne consegue che, in sede penale o civile, l’attivazione dell’azione di regresso non può basarsi sul semplice riconoscimento dell’infezione da SarsCov-2. L’Istituto al riguardo - oltre a ricordare che l’attivazione dell’azione di regresso presuppone anche l’imputabilità a titolo, quantomeno, di colpa, della condotta causativa del danno - ha altresì opportunamente richiamato la sentenza della Corte di Cassazione a SS.UU. n. 30328 del 10 luglio 2002.
Inoltre l’INAIL, nella circolare n. 13 del 3 aprile 2020, ha ritenuto opportuno evidenziare che non esiste alcun automatismo giuridico nel riconoscimento dell’infortunio da Covid-19 da parte dell’Istituto che, ai fini della tutela infortunistica, deve comunque valutare le circostanze e le modalità dell’attività lavorativa, da cui sia possibile trarre elementi gravi per giungere ad una diagnosi di alta probabilità, se non di certezza, dell’origine lavorativa dell’infezione.
Tale iter, peraltro, vale sia per i lavoratori assistiti da presunzione semplice, individuati nella medesima circolare, che per coloro che non beneficiano di tale alleggerimento probatorio, non potendosi in ogni caso - le due categorie di lavoratori considerate - mai avvalere di una presunzione assoluta; l’unica, nel nostro ordinamento, avverso la quale non è ammessa prova contraria.
L’introduzione di questa disciplina non ha mancato di sollecitare un più ampio confronto, già da tempo in atto e per la verità mai sopito, sulla responsabilità civile e penale del datore di lavoro, derivante dalla inosservanza della disciplina prevenzionistica, in un contesto segnato dalla introduzione di disposizioni normative emergenziali.
In effetti, la posizione di garanzia del datore di lavoro ha impegnato a lungo il legislatore nella ricerca di soluzioni normative che, a partire dall’art. 2087 c.c., fossero sempre più articolate e prescrittive - e di conseguenza specularmente sanzionatorie - consentendo il bilanciamento dei valori costituzionali della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, da una parte, e della libertà di iniziativa economica dall’altra.
Tuttavia, a seguito di questa imponente evoluzione normativa ed a quasi tredici anni dall’entrata in vigore del T.U.
Sicurezza, una più profonda riflessione si impone al giurista: non tanto sugli spazi vuoti lasciati dalla norma ovvero sui margini di semplificazione ancora esistenti, quanto sulle soluzioni interpretative attraverso cui la dottrina, da una parte, e la prassi giurisprudenziale ed amministrativa dall’altra, hanno colmato nel tempo detti spazi, talvolta sacrificando eccessivamente le ragioni dell’imprenditore, anche di quello più virtuoso, di conseguenza esposto al rischio di “derive oggettivistiche” della responsabilità.
Limiti di responsabilità
L’emergenza pandemica ci ha infatti ricordato che il bilanciamento tra i valori in gioco non è cosa semplice e, a qualunque scelta induca il legislatore, il margine di errore operativo è molto alto, ancor più quello di incongruenze giuridiche che tanto più si annidano nell’affastellamento di “norme o strumenti para-normativi dell’emergenza” che difficilmente si coordinano con l’impianto dell’ordinamento generale.
Pare così opportuno provare ad apporre confini certi alla responsabilità del datore di lavoro, soprattutto a fronte di rischi atipici, tanto in sede civile quanto in sede penale, evitando però di imbattersi nelle inevitabili questioni di riserva di legge pur giustamente paventate dalla dottrina penalistica.
Conseguentemente, ci si chiede se sia possibile delineare, facendo uso di tecniche regolatorie nuove, un sistema chiaro di prevenzione e di governance (possibilmente pubblico–privato) del rischio che consenta all’imprenditore, di concerto con l’istituzione pubblica e con il coinvolgimento dei lavoratori quali esponenti della “medesima comunità di rischio”, di delimitare ex ante i confini della sua responsabilità.
Di questo tema, in linea generale, ha solo iniziato ad occuparsi nei mesi scorsi l’art. 29–bis del decreto liquidità, convertito con l. 5 giugno 2020, n. 40. La disposizione, che non integra una ipotesi di “scudo penale” per il datore di lavoro, rappresenta infatti solo un primo tentativo di mitigazione ex ante della responsabilità personale datoriale, molto efficace in sede civile, meno in sede penale.
Urge dunque estendere la riflessione, in modo più ampio e sistematico, alla opportunità di un intervento del legislatore volto a tracciare, quantomeno in ambito lavoristico, un perimetro più netto della responsabilità del datore di lavoro e ad istituire un sistema di governance della stessa, improntato ad una logica più propriamente preventiva e non meramente affittivo/sanzionatoria. Ciò al fine di declinare, con maggiore certezza e senza rischi di sconfinamento, la delicata posizione di garanzia soprattutto nel contesto dei rischi nuovi, emergenti e difficilmente prevedibili/contenibili.
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