- La riforma della giustizia, civile e penale, è urgente e importante perché richiesta dal Pnrr con lo scopo di realizzare una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta.
- Tuttavia, nel progetto di riforma della giustizia penale si ignora il rapporto tra la giurisdizione e l’imputato che avrebbe invece bisogno di essere rivisto.
- La violenza l’imputato la può avvertire fin dai primi atti di un procedimento penale, anche attraverso il lessico della comunicazione di garanzia.
Da un po’ di tempo la riforma della giustizia penale domina la scena politica e quella mediatica. Al progetto di riforma del ministro Carlo Nordio si sono aggiunti i procedimenti che interessano la ministra del turismo Daniela Santanchè, il vice ministro della giustizia Andrea Delmastro delle Vedove e il figlio del presidente del Senato. La riforma della giustizia, civile e penale, è urgente e importante perché richiesta dal Pnrr con lo scopo di realizzare una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta.
Tuttavia, nel progetto di riforma della giustizia penale si ignora il rapporto tra la giurisdizione e l’imputato che avrebbe invece bisogno di essere rivisto. Molti studiosi del diritto parlano del processo penale come di un tunnel difficile da percorrere. Difficile e aspro: timori, confusione e incertezze scuotono la vita di chi lo attraversa. Il clima è quello del dramma.
Non è un caso se letteratura, filosofia, arte e religione hanno studiato gli aspetti più problematici del processo penale che hanno a che fare con la vita del singolo. Un noto docente, Massimo Nobili, è convinto che la materia e la drammaticità della giustizia penale si intendano meglio, anche nelle parti più specialistiche, guardando i processi presi in considerazione da tanti artisti di ogni tempo.
Un esempio per tutti: Max Ernst con Justitia o bottega di macellaio del 1919. Così, nell’introduzione del suo libro L’immoralità necessaria, caratterizzato da mille citazioni, Nobili scrive che «i processi sono comunque vicende che non si comprendono senza una vera consapevolezza della loro connaturata violenza».
Il lessico
E questa violenza l’imputato la può avvertire fin dai primi atti di un procedimento penale, anche attraverso il lessico della comunicazione di garanzia. Il pubblico ministero è indicato come dottor Nome e Cognome, l’imputato con Cognome e Nome. Nessun titolo (dottore o professore) anche se c’è. Mettere il cognome prima del nome può ricordare il mondo militare dove il soldato deve solo ubbidire, oltre a rappresentare una prassi non aderente alla cultura del nostro paese.
Quando era docente universitario a Bologna, un giorno si presentò a Giosuè Carducci uno studente, pregandolo di volergli firmare il libretto di frequenza. «Come si chiama Lei?», gli domandò il poeta. E quello, timidamente, «Rossi Arturo». Bruscamente, quasi sgarbatamente, il Carducci gli restituì il libretto senza neppure aprirlo: «Le farò la firma quando avrà imparato a dire correttamente il suo nome!». Lo studente guardò il professore con aria interrogativa. E il Carducci, ancor più severo: «Per sua regola, si dice e si scrive sempre il nome prima del cognome. L’eccezione è ammessa solo in caso di necessità alfabetiche!».
E il libretto non fu firmato. Nel procedimento giudiziario la necessità alfabetica può esserci in caso di molti imputati, ma si usa cognome e nome anche nel caso di un solo imputato.
Il magistrato inquirente ha indubbiamente poteri che permettono di violare la privacy dell’indagato sequestrando computer o intercettando le telefonate, oltre a limitarne la libertà con misure cautelari. Questi poteri devono essere esercitati con molta cautela, in modo non aggressivo, nei limiti imposti dalla legge e soprattutto indirizzati a trovare le prove del reato o dei reati attribuiti all’indagato.
Troppo spesso abbiamo visto pubblici ministeri più attenti a elencare reati che a trovare le prove dei reati stessi o comunque inclini a disporre mezzi di indagine senza solidi sospetti, ma con l’auspicio di trovare prove. Peraltro, si tende spesso a dimenticare la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio.
Il rispetto della dignità
Specialmente nella fase inquirente, ma anche nel seguito del procedimento, il magistrato deve sempre improntare la propria condotta al rispetto della dignità umana. Nella maggior parte delle Carte internazionali e nazionali dei diritti fondamentali – dalla Dichiarazione universale alla Carta europea, alla Costituzione italiana – sia pure con forme molto diverse, c’è un richiamo costante al principio e al tema dell’inviolabilità del rispetto della dignità.
Questo richiamo esprime la comune appartenenza all’umanità, e pone l’accento sull’esigenza di tutelare e rispettare le persone, tutte e ciascuna in quanto tale. Nella nostra Costituzione il diritto alla dignità è ricordato in particolare nel primo comma dell’articolo 3 dove si parla di «pari dignità sociale», in collegamento al principio di eguaglianza formale.
Tale richiamo è stato letto come la proiezione del valore paritario della dignità umana su tutti i rapporti riferibili ai cittadini. Con questo, il concetto di dignità deve essere letto non soltanto in chiave di eguaglianza formale ma anche in chiave di eguaglianza sostanziale, nel senso che l’affermazione in ambito sociale della dignità umana implica che i pubblici poteri si adoperino per garantire il pieno rispetto e il pieno sviluppo della persona.
La dignità si può perdere per molti motivi. Ma non si può perdere il diritto a essere trattati da chiunque con rispetto, a non subire violenza fisica o mentale. Si sa che quella dell’imputato è una posizione di debolezza, qualunque sia l’imputazione.
Questo è scritto nella storia del processo penale che sottrae il presunto colpevole alla vendetta privata, prevista nella legge romana di Numa, attribuendo allo stato il potere sanzionatorio all’esito di un accertamento basato su specifiche garanzie. Anche nell’immaginario collettivo l’imputato è solo davanti alla legge, e fino a pochi anni fa lo era davvero nella fase iniziale, non potendosi avvalere di un difensore.
La cultura sbagliata della pena
Questo errato atteggiamento della giurisdizione fa parte della cultura dominante della pena da infliggere al responsabile di un reato, mentre la cultura che dovrebbe guidare l’azione dei magistrati dovrebbe sempre essere quella del “in dubio pro reo” e in seguito quella dell’eventuale recupero del condannato e del suo reinserimento nella società civile, altro principio stabilito dall’articolo 27 della nostra Costituzione.
Questo problema esiste anche in molte altre giurisdizioni europee. Si tratta dunque di un aspetto fondamentale del processo penale dal quale dipende l’andamento di tutto l’iter successivo. Una rivoluzione culturale per affermare il rispetto della dignità sancita dalla Costituzione e dalle Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo. E questa rivoluzione dovrebbe avvenire prima ancora di parlare di riforme pericolose come la separazione delle carriere o la limitazione delle intercettazioni.
© Riproduzione riservata