L’inchiesta è stata battezzata “Petrolmafie spa” e l’ipotesi accusatoria allarga gli interessi delle mafie italiane – clan camorristici campani e ‘ndrine calabresi – al business lecito che ruota intorno al petrolio. Un mercato che, secondo un’intercettazioni a uno degli indagati, «rende più della droga».

Le indagini, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia, hanno visto coinvolte le procure di Reggio Calabria, Catanzaro, Napoli e Roma, il cui lavoro investigativo ha messo in luce la sinergia tra le diverse organizzazioni mafiose per lucrare sul commercio di petrolio con tecniche criminali tipiche dei cosiddetti “colletti bianchi”. I reati contestati, infatti, sono sì l’associazione a delinquere di stampo mafioso, ma anche il riciclaggio e la frode fiscale di prodotti petroliferi.
Il versante calabrese è di fatto un filone dell’inchiesta Rinascita Scott condotta dalla procura di Catanzaro, «perché tocca uno degli metodi di riciclaggio di denaro della famiglia Mancuso di Limbardi (‘ndrina influente nella zona di Vibo Valentia ndr). Siamo entrati nei particolari del meccanismo riciclaggio che riguardava le accise e il petrolio», ha spiegato il procuratore capo Nicola Gratteri, in una videoconferenza insieme agli altri vertici delle procure. «Questa indagine dimostra la grande sinergia tra le principali mafie, che non hanno nè steccati nè procedure da rispettare e sono presenti sempre per gestire denaro e potere», ha concluso Gratteri.

I contatti col Kazakistan

L’inchiesta ha ricostruito i metodi di un’associazione per delinquere creata da imprenditori calabresi con sede a Vibo Valentia. «Le ipotesi riguardano un meccanismo di frode fiscale, false fatturazioni per evadere l’iva e le accise sui prodotti petroliferi, riciclaggio e autoriciclaggio, in un ambito territoriale che riguarda Campania, Sicilia e Calabria», ha spiegato Bombardieri.

Il meccanismo era quello di importare dall’est Europa prodotti petroliferi artefatti, che poi sarebbero stati venduti in Italia sia in nero che sul mercato legale come se fossero gasolio per autotrazione, che gode di un regime di imposta maggiore e dunque con un margine di guadagno molto più alto. Queste miscele venivano trasportate con documenti falsi in alcuni siti di stoccaggio e poi il prodotto finale veniva venduto nelle cosiddette pompe di benzina “bianche”, non di proprietà dei grandi gruppi petroliferi. Inoltre i proventi illeciti sarebbero stati in parte reinvestiti nel medesimo circuito oppure riciclati su conti correnti esteri riconducibili a società di comodo bulgare, rumene, croate e ungheresi.

Centrale operativa era Vibo ma gli interessi si allargavano fino al Kazakistan. Nel gennaio del 2019, infatti, si è svolta una riunione in un’osteria e in quell’occasione Luigi Mancuso, capo locale della famiglia, ha incontrato un rappresentante kazako della Kmg (una società estrattiva), accompagnato dal traduttore e da due broker lombardi che sono stati arrestati la notte scorsa. «L’obiettivo dell’incontro era capire come far arrivare il petrolio a Vibo e si ipotizzava di creare una boa nel porto per far attraccare le petroliere e poi di svuotarle con un tubo che confluisse la miscela nei depositi di una famiglia imprenditoriale locale», ha spiegato Gratteri. L’operazione, però, salta perché l’uomo che teneva il contatto tra i broker milanesi e la famiglia Mancuso viene arrestato per omicidio.

Tra il 2018 e il 2019, l’omesso versamento di accise sarebbe stato di 31 milioni di euro e l’evasione dell’iva di 130 milioni. Sono stati sequestrati un milione di euro in contati che da Napoli stavano arrivando in Calabria, 27 conti correnti esteri e più di 100 società di copertura. Gli indagati fermati a Catanzaro sono 15, mentre a Reggio Calabria sono state disposte 19 misure cautelari in carcere e quattro arresti domiciliari.

 

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