La Polonia non é l’unico stato ad aver conosciuto un declino nel rispetto dei diritti e della democrazia. I propositi enunciati dalla leader di Fratelli d’Italia in campagna elettorale in merito all’interruzione volontaria di gravidanza fanno sinistramente eco a quelli promossi negli ultimi anni dai vicini dell’Est
Justyna é in attesa di sentenza e rischia fino a tre anni di carcere. Il suo crimine? Aver assistito un’altra donna nell’esercizio di un diritto umano fondamentale: quello al controllo del proprio corpo.
Il processo che la riguarda é il primo in Europa a vedere sul banco degli imputati una donna accusata di averne assistita un’altra nel praticare un’interruzione volontaria di gravidanza al di fuori delle, limitatissime, circostanze in cui questa é consentita dalla legge nel suo paese, la Polonia.
Queste hanno subito un’ulteriore contrazione a seguito di una sentenza della neo-riformata Corte Costituzionale che, nell’ottobre 2020, ha ridotto drasticamente l’accesso delle donne polacche a questo diritto fondamentale, inasprendo una cornice normativa già tra le più restrittive in Europa. Justyna, e prima di lei Izabela, Agnieska e con loro tante altre donne in Polonia hanno pagato a caro prezzo, a volte persino con la vita, le conseguenze di questa riforma e della svolta ultra-conservatrice conosciuta dal paese negli ultimi anni.
Il loro caso non fa che illustrare una tendenza ormai ben consolidata nel paese dove, a seguito della presa di potere del partito ultra-conservatore Diritto e Giustizia (PiS) nel 2015, i tentativi volti a scardinare le fondamenta dello Stato di diritto e a limitare i diritti e le libertà fondamentali si sono moltiplicati, fino a far parlare di crisi democratica in uno Stato che, fino a non molto tempo fa, era considerato il fiore all’occhiello, tra i paesi del blocco ex-sovietico, della transizione e dell’integrazione europea.
Oltre a ostacolare l’esercizio, da parte delle donne polacche, del proprio diritto a decidere liberamente della propria salute sessuale e riproduttiva, il governo ha sistematicamente attaccato, negli ultimi sette anni, i diritti delle minoranze, ha preso di mira la magistratura, i media indipendenti e le organizzazioni della società civile, ha riformato l’educazione pubblica in modo che riflettesse una visione etero-normativa della società cara alle forze politiche al potere e ai circoli, a loro prossimi, del fondamentalismo religioso di matrice cattolica.
Questa deriva ha giustificato il lancio, nel 2017, da parte della Commissione europea, di una procedura sino ad allora mai utilizzata e volta ad accertare “l’evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori” su cui l’Unione Europea si fonda.
La Polonia non é l’unica ad aver conosciuto, nel corso dell’ultimo decennio, un declino rapido e inesorabile nel rispetto dei diritti e della democrazia.
Prima del governo di Varsavia, la coalizione guidata dal Primo Ministro ungherese Viktor Orbán si era adoperata, a cominciare dalla sua prima vittoria elettorale nel 2010, a smantellare in maniera sistematica il sistema di pesi e contrappesi su cui si fonda, in uno stato democratico, l’equilibrio dei poteri e che garantiscono il controllo della maggioranza a tutela del ruolo e dei diritti delle minoranze.
E’ cosi che, in poco più di un decennio, Fidesz é arrivato a dar vita a quello che, per riprendere la definizione che ne ha dato il Parlamento europeo in una storica risoluzione adottata lo scorso 15 settembre, non merita più di essere considerato uno stato pienamente democratico ma piuttosto “un regime ibrido di autocrazia elettorale” nel quale – sempre secondo l’Europarlamento - é insito quell’“evidente rischio di violazione grave” dei principi dei Trattati che giustifica un intervento dell’Unione a difesa dei valori comuni su cui si fonda il progetto europeo.
Un pericolo europeo
E’ a tali derive, e alla minaccia pericolo che queste rappresentano non solo per i/le cittadini/e dei paesi direttamente interessati ma per l’Europa intera, che é difficile non guardare con inquietudine all’indomani delle elezioni politiche del 25 settembre e della vittoria schiacciante, benché in qualche modo annunciata, della destra radicale in Italia.
I propositi, se non altro ambigui, enunciati dalla leader di Fratelli d’Italia in campagna elettorale in merito all’interruzione volontaria di gravidanza e, più concretamente, le posizioni adottate -a pochi giorni dalle elezioni – da alcuni esponenti del partito in merito alla piena applicazione della legge 194, compresa la presentazione di una proposta di legge regionale volta ad istituire, in ogni struttura ospedaliera in cui si pratichi l’IVG, degli sportelli “pro-vita”, fanno sinistramente eco a quelli promossi negli ultimi anni dai vicini dell’Est (non ultimo l’introduzione in Ungheria, questo mese di settembre, di una legge che prevede l’obbligo, per le donne che desiderino abortire, di ascoltare il battito del feto).
Malgrado i toni globalmente moderati su cui ha plasmato la campagna elettorale, il partito di Meloni non ha d’altronde mai fatto mistero del proprio sostegno alla “famiglia tradizionale”, né della sua ferma opposizione a quella che definisce, scimmiottando ancora una volta i suoi alleati mittel-europei e riprendendo una terminologia propria del movimento anti-genere a livello globale, l’“ideologia gender” e ad ogni iniziativa legislativa volta a combattere l’omolesbobitransfobia.
Sono soprattutto questi attacchi concettuali indiretti, più ancora di altri obiettivi politici promossi da FdI - quali quelli in materia di immigrazione, che non fanno che riflettere l’approccio securitario fondato sulla chiusura delle frontiere, l’esternalizzazione della gestione dei flussi e la criminalizzazione abbracciato da tutta la destra europea - a dare la misura del profondo cambiamento che la nuova destra é potenzialmente in grado di innescare nella coscienza politica degli/delle italiani/e.
Se il pericolo di riforma costituzionale, e della perennizzazione – ben oltre il mandato elettorale - di future modifiche legislative che questa avrebbe potuto assicurare sul modello ungherese, sembra per il momento essere stato sventato grazie al mancato raggiungimento del quorum necessario, é il discorso politico ora dominante e la sua pericolosa vicinanza a quello promosso da altri leader d’Europa (e d’oltreoceano) che hanno fatto dell’oscurantismo intransigente, della contrazione delle libertà individuali e della distruzione della democrazia la loro bandiera, che soprattutto dovrebbe destare apprensione.
Inversamente, é inevitabile che la vittoria di Meloni contribuisca ad allargare e a consolidare il fronte sovranista, non solo infondendo nuove energie ai partiti fratelli in altri paesi d’Europa, ma rischiando anche di alterare gli equilibri all’interno del blocco europeo in senso sfavorevole al multilateralismo e all’avanzamento dei diritti.
Pur non spingendosi fino a rimettere in discussione l’appartenenza all’Europa, i propositi espressi da esponenti di rilievo del partito attualmente al potere in merito alla supremazia del diritto nazionale sul diritto europeo – già contenuti in un progetto di legge presentato da FdI nel 2018 - destano più di un semplice timore che la questione riguardante il primato del diritto UE, principio cardine dell’integrazione europea tutt’altro che ben accetto alle forze sovraniste italiane e d’oltralpe, torni prepotentemente alla ribalta dopo l’insediamento ufficiale del nuovo governo il prossimo 13 ottobre.
Malessere sociale e rimedi populisti
In tal senso, appare simbolico che, tra gli Stati fondatori, sia proprio l’Italia, paese che, all’alba del dopoguerra, reduce da vent’anni di dittatura e segnata dalle cicatrici del fascismo, abbracciava con entusiasmo la promessa di pace, unità e rinascita democratica che il progetto europeo portava con sé, a virare oggi, in maniera tanto decisa, verso propositi, valori e alleanze assai vicini a quelli a cui tale progetto intendeva fermamente opporsi.
Certo, il sostegno elettorale di cui gode attualmente la destra radicale, in Italia come in altri paesi d’Europa, trova spiegazione, più che in una opinabile nostalgia del fascismo, in motivazioni assai meno ideologiche e più concrete.
L’insicurezza derivante da una persistente instabilità politica, le profonde disuguaglianze sul piano economico e sociale, il calo di fiducia nelle istituzioni – dimostrato anche da un grado di astensionismo senza precedenti nelle ultime elezioni in Italia e in altri paesi d’Europa – sono all’origine di un malessere diffuso che inevitabilmente trova sollievo tra le braccia confortanti dei populismi che, in nome dell’intramontabile triade Dio-Patria-Famiglia e fabbricando capri espiatori da sacrificare sull’altare delle responsabilità collettive, non cessano di offrire risposte semplici a questioni sempre più complesse.
Arginare la deriva
Tuttavia, se questa analisi rende comprensibile la vittoria elettorale del partito di Meloni in Italia, così come il successo dei Democratici Svedesi di Åkesson in Svezia poche settimane fa, il risultato straordinario ottenuto in Francia dal Rassemblement National di Marine LePen in primavera, e la rapida ascesa, negli ultimi anni, dei partiti di Orban e di Kaczyński in Ungheria e in Polonia, le soluzioni che tali movimenti politici propongono rimangono inaccettabili.
A fronte di una tendenza diffusa che sembra spingere un numero sempre maggiore di paesi nella direzione opposta a quella che i fondatori dell’Unione avevano ardentemente auspicato, é pertanto indispensabile smascherare l’inganno su cui riposa il successo della retorica populista e nazionalista, e fare in modo che la risposta venga dalla riaffermazione dei valori comuni sulle cui fondamenta é stata eretta l’Europa e dalla loro declinazione in alternative tangibili che rispondano alle necessità e alle aspettative della popolazione.
A tal fine, mostrare l’incongruenza del progetto politico promosso dalle forze reazionarie rispetto ai bisogni reali della popolazione, additando le conseguenze che l’ascesa al potere dei partiti sovranisti in alcuni Stati europei – quali la Polonia e l’Ungheria - ha avuto, in primis, sull’esercizio dei diritti e delle libertà dei/delle cittadini/e, resta l’argomento più convincente per arginare la deriva autoritaria.
In secondo luogo, in un momento storico particolarmente delicato per l’Europa, chiamata a fronteggiare crisi, interne ed esterne, di una gravità senza precedenti, é necessario tornare ad affermare con forza, non ultimo in sede elettorale e per il tramite di proposte concrete, la centralità e l’attaccamento ai valori di democrazia, libertà, uguaglianza e rispetto dei diritti che costituiscono il DNA dell’Europa di oggi e – ci auguriamo – di domani.
Justyna non merita di trovarsi oggi sul banco degli imputati. Tuttavia, a meno di una presa di coscienza collettiva della minaccia e di un’azione ferma e tempestiva per arginarla, non é da escludere che accanto a lei domani, nei tribunali italiani, svedesi, francesi e di tutta Europa, potremmo ritrovarci tutti/e.
Per tale ragione, prendere posizione oggi, in modo chiaro e coraggioso, al suo fianco e al fianco di chi, nella società civile, ha scelto come lei di lottare contro una deriva tanto impercettibile quanto ineluttabile, é non soltanto auspicabile ma imprescindibile.
Stare con Justyna non significa infatti soltanto prendere le parti di chi oggi é accusato ingiustamente per aver difeso un diritto, ma preservare la possibilità per noi tutti/e di godere domani del diritto supremo ad avere e a esercitare diritti, primi fra tutti il diritto alla libertà, alla giustizia e ala scelta della vita che vogliamo e che meritiamo di vivere.
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