La posizione dell’Unione è evidentemente una posizione scomoda. Perché siamo attaccati dalla maggioranza quando critichiamo le norme populiste e illiberali e siamo attaccati dalla minoranza quando appoggiamo il progetto di norme liberali e garantiste. Ci ritengono inaffidabili perché ci schieriamo sempre dalla parte degli ultimi e perché pratichiamo un garantismo ubiquitario. Ma si tratta di una posizione alla quale siamo abituati perché da sempre proclamiamo la nostra trasversalità
*presidente dell’Unione camere penali italiane
Non avevamo affatto creduto che la strada fosse in discesa e che i principi del diritto penale liberale avrebbero trovato piena attuazione nelle nuove politiche criminali del Paese. Non abbiamo mai pensato che il garantismo avrebbe naturalmente ispirato ogni iniziativa riformatrice in ogni campo del diritto penale sostanziale e processuale, né che - tantomeno - i principi costituzionali della dignità della persona (art. 2 Cost.), del divieto dei trattamenti inumani e degradanti e della finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 Cost.) si sarebbero naturalmente imposti anche nella esecuzione della pena. La passione e la tenacia con le quali perseguiamo queste idealità non ci hanno resi troppo ingenui.
D’altronde, nella pur variegata maggioranza governativa, si erano imposti alcuni slogan, come quello dei “garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione della pena”. Uno slogan davvero incompatibile con il buon senso, in quanto cerca di tenere insieme due paradigmi (giustizialismo/garantismo) certamente non conciliabili e di disgiungere invece due parti del processo penale (cognizione e condanna) che non possono non essere avvinte da una medesima finalità di tutela, sia pure diversamente declinate, di quel bene irrinunciabile che è la dignità della persona, che è infatti quella cosa che “non si acquisisce per merito e non si perde per demerito” e che spetta dunque a ciascuno di noi ma anche a chi si fosse macchiato del più terribile dei delitti.
Avevamo immaginato si trattasse solo di uno slogan elettorale, contrario alla logica del diritto ed al buon senso corrente, ma sostanzialmente innocuo. E si è invece rivelato una formula programmatica che ha visto svilupparsi due politiche giudiziarie parallele e differenti: da un lato quella del garantismo processuale e dall’altro quella carcerocentrica delle esecuzioni; da un lato la politica della tutela e della promozione della presunzione di innocenza e del diritto di difesa e dall’altro quella della claustrofilia e della penalità repressiva e retributiva; da un lato quella della limitazione della custodia cautelare e dall’altro quella della moltiplicazione delle ostatività; da un lato quella della abrogazione dell’abuso d’ufficio e dall’altro quella della moltiplicazione delle fattispecie penali, delle pene sproporzionate della criminalizzazione del dissenso e dell’inoffensività, del “diritto penale totale”. Due paradigmi e due logiche separate vengono così tenute innaturalmente assieme, fingendo che politiche di segno ideologicamente opposto possano essere due rami dello stesso albero, che lo stesso uomo tutelato dalle garanzie nel processo possa divenire, a cosa giudicata, un oggetto da dislocare altrove e non più un essere umano da rispettare.
giustizialisti nell’esecuzione
Quella formula “giustizialisti nell’esecuzione” si è mutata in un pericoloso piano inclinato lungo il quale sono scivolate nel pubblico quelle idee fatte del “gettare via le chiavi”, del “marcire in galera”, e di quella equivocata idea della “certezza della pena”, che una volta permeata la collettività, hanno fatto apparire come naturalmente accettabile il vivere ristretti, in spazi degradati, fatiscenti e sovraffollati, fra le blatte e le cimici, fra la scabbia e le muffe, senza servizi igienici e sanitari degni di questo nome, ed il permettere quindi che 73 persone detenute, abbandonate a se stesse in quei luoghi privi di speranza e di qualsiasi possibile risposta di giustizia, si siano suicidate – e continuino a farlo - dandosi la morte nei modi più atroci. Sono giovani, giovanissimi ed anziani, italiani e stranieri, sottoposti a custodia cautelare e a condanne definitive, in tutte le carceri del Paese dal nord al sud, ristretti con lunghi fine pena e a pochi mesi dalla libertà, a dimostrare come il carcere sia divenuto nel nostro Paese di per sé una macchina della disperazione. Un luogo incivile del quale vergognarsi: vero ed unico esempio di “resa dello Stato”.
Noi abbiamo iniziato a denunciare già a novembre dello scorso anno lo scandalo delle carceri e dei suicidi, quando nessun media si occupava del problema. Abbiamo aperto uno spazio comunicativo importante con la nostra presenza e le nostre iniziative sui territori. L’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario tenutasi a Roma è stata l’occasione per rilanciare la nostra denuncia. E poi l’iniziativa delle maratone oratorie sul carcere che si è sviluppata sull’intero territorio nazionale dal 29 maggio al 10 luglio, coinvolgendo 72 Camere Penali, che con l’evento conclusivo romano di Piazza Santi Apostoli ha avuto il merito notevole di far conoscere la dimensione sociale di un’emergenza dimenticata dall’informazione coinvolgendo prima la politica locale e poi quella nazionale (si tratta di un contributo davvero straordinario del quale dobbiamo ringraziare tutte le Camere Penali territoriali per l’intelligenza e la passione con la quale hanno aderito all’iniziativa). Lo stesso impegno che è stato profuso nell’intero periodo estivo con l’iniziativa “Ristretti in agosto” che ha impegnato le Camere Penali dal 15 luglio al 30 settembre, assieme a “Nessuno tocchi Caino” e ad altre associazioni operanti nei territori nelle visite di ben 59 istituti, nell’ambito delle quali la vocazione solidaristica ed umanitaria si è sempre comunque accompagnata alla finalità di denuncia delle condizioni inumane della detenzione, ovunque e comunque riscontrate.
La pena detentiva dovrebbe essere costituita dalla sola privazione della libertà ma nella realtà carceraria caratterizzata da strutture fatiscenti ed un tasso di sovraffollamento medio del 130,59 % (la Casa Circondariale romana di Regina Coeli soffre, come molte altre, dalla Lombardia alla Campania, di un tasso di sovraffollamento vicino al 180 %) lo squilibrio fra le risorse – materiali, sanitarie, trattamentali - disponibili e il numero dei detenuti provoca inevitabilmente condizioni di espiazione delle pene asfittiche, inumane e degradanti1. Non si tratterebbe affatto, come si dice, di dare un premio immeritato liberando i condannati, ma semplicemente di riconoscergli un minimo risarcimento per le condizioni infami nelle quali sono stati costretti a vivere la privazione della libertà. Eppure le parole amnistia o indulto, e la stessa liberazione anticipata speciale, sono divenute parole eretiche espulse dal vocabolario della maggioranza. Parole che continueremo a pronunciare e a ricordare al Governo e al Parlamento perchè sono ancora oggi, più che mai, gli strumenti elettivi che rispondono all’emergenza, che soprattutto salvano vite umane ma che anche salvano il carcere dall’illegalità.
il carcere
La questione del carcere è una ferita ancora aperta, che non solo non è stata in alcun modo sanata dal cd. Decreto Carcere, ma che proprio in quel decreto ha trovato una gravissima elusione del problema in quanto l’iniziativa del Governo appare impostata esclusivamente su progetti di lungo termine che non affrontano l’emergenza in atto e non risolvono, con l’urgenza che l’adozione stessa di un decreto avrebbe imposto, le inefficienze del presente. La stessa riforma della liberazione anticipata (art. 5) si è rivelata da subito scelta errata nella sua filosofia, contraria alla giurisprudenza costituzionale e dannosa sul piano psicologico e trattamentale del condannato. Ma si è purtroppo confermato l’ostinato ed irragionevole rifiuto ideologico da parte del Governo di adottare ogni possibile rimedio al sovraffollamento che preveda la liberazione di detenuti (sebbene con fine pena brevi, meritevoli di benefici, condannati per reati meno gravi) seppure di minima e ragionevole portata, come la cd. proposta Bernardini Giacchetti.
La riduzione del sovraffollamento dovrebbe essere attuata attraverso l’espulsione dei cittadini stranieri di accertata identità (art. 16 TU immigrazione), ad opera del magistrato di sorveglianza, e l’incremento della edilizia penitenziaria tramite la nomina di un Commissario Straordinario (Art. 4-bis).
Il primo rimedio porterebbe allo stato alla scarcerazione di poche centinaia di detenuti, mentre la realizzazione di un serio “piano carceri” avrebbe inevitabilmente una proiezione decennale e costi altissimi. Con la medesima finalità deflattiva, sarebbe attuato l’improbabile “trasferimento” dei detenuti tossicodipendenti (che costituiscono una quota percentuale molto alta della popolazione carceraria) in altrettante strutture destinate alla “cura e riabilitazione” delle tossicodipendenze, sebbene allo stato tali strutture non siano affatto - come a tutti noi noto - disponibili e se ne stia promuovendo (ai sensi dell’art. 8 comma 6-bis) un più virtuale che virtuoso “ampliamento”. Improbabili dimore coatte, controllate da non meglio individuato personale di polizia e tratte da caserme dismesse, dovrebbero contenere la popolazione carceraria residua, laddove priva di un idoneo domicilio, ma meritevole della misura della detenzione domiciliare (che è tuttavia misura autodetentiva e non abbisognerebbe di controlli eccezionali).
Non si comprende dove dovrebbero trovare posto, in questo disastrato contesto, non solo il trattamento ordinario ma anche il tanto decantato lavoro intramurario o, neanche a dirlo, gli spazi speciali destinati all’affettività dal tanto lungimirante - quanto annichilito nei fatti - giudice delle leggi. Sappiamo della esistenza di uno straordinario “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie nel sistema penitenziario per adulti” varato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri già nell’agosto del 2017: nelle condizioni date di sovraffollamento un simile piano non troverà mai possibile alcuna minima applicazione. Abbiamo chiarito più volte quante e quali specifiche responsabilità abbiano avuto nel prodursi del disastro attuale delle carceri i governi che hanno preceduto l’attuale. Ma se la responsabilità del disastro è diffusa, la responsabilità del non porvi rimedio è qui ed ora.
Il populismo non è mai tramontato. Il populismo penale di stampo paternalistico si è soltanto mutato in populismo penale repressivo e autoritario. Ne è purtroppo un fedele ritratto il cd. pacchetto sicurezza varato dalla Camera dei Deputati il 18 settembre scorso. Ne avevamo tracciato già una inequivoca condanna nelle nostre delibere del 20 novembre 2023 e del 25 gennaio 2024, rilevando come, lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, quelle norme rivelavano nel complesso una matrice securitaria populista, autoritaria e profondamente illiberale caratterizzata da un irragionevole rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, in violazione dei principi di eguaglianza e di proporzionalità. Ed avevamo formulato puntuali critiche sui singoli interventi in sede di Audizione davanti alla Commissione Giustizia denunciando la irragionevole moltiplicazione delle fattispecie di reato e lo sproporzionato aggravamento delle pene, secondo paradigmi che rispondono alla più tipica logica del diritto penale simbolico, e che mirano esclusivamente a lucrare consenso, facendo leva su di un sentimento di insicurezza a sua volta strumentalmente diffuso nella collettività4.
Vanno condannate la spropositata criminalizzazione sia del dissenso che della marginalità e l’inadeguato incremento dei poteri della Polizia giudiziaria, mentre di particolare gravità risulta essere la cancellazione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di prole in tenera età.
Contraria non solo al principio di ragionevolezza ed a quello di proporzionalità ma anche ai principi di offensività e di determinatezza la fattispecie di reato di “rivolta in istituto penitenziario”, introdotta con il nuovo art. 41-bis c.p. (art. 26), in quanto integrata anche da condotte inoffensive come la resistenza passiva, ovvero da semplice disobbedienza, da valutarsi in base ad un ineffabile “contesto”. Si è introdotta una modifica al codice delle comunicazioni elettroniche (art. 98-undertricies) che comporta il divieto di rilascio di un contratto telefonico al “cittadino di uno Stato non appartenente alla Unione europea” per il solo fatto di essere sprovvisto di titolo di soggiorno (art. 32).
Si è inoltre anche aperto un tavolo volto alla introduzione della “castrazione chimica” come forma di contrasto ai reati sessuali. Si tratta di iniziative legislative impostate sull’impronta di un “diritto penale del nemico” e su di una responsabilità da “tipo d’autore” incompatibili con i diritti fondamentali della persona e con i principi della nostra Costituzione.
pacchetto sicurezza
Abbiamo ribadito la nostra contrarietà a quel “pacchetto sicurezza”, alla filosofia che lo governa ed alle singole norme, anche al Ministro Nordio in occasione del nostro incontro il 24 settembre scorso. Abbiamo successivamente denunciato i limiti della riforma ed i profili di incostituzionalità delle singole orme nella nostra Delibera di Giunta del 30 settembre scorso7. Ci siamo riservati iniziative e manifestazioni in ambito nazionale ed il ricorso alla proclamazione di astensioni. Chiederemo alla accademia ed alla politica di sostenere le nostre iniziative. La nostra azione di contrasto sarà in tutte le sedi ferma e dura in quanto siamo convinti che nessun fenomeno criminoso e nessuna forma di devianza, per quanto diffuse ed oggetto di un necessario contrasto, consentano di adottare misure e rimedi sproporzionati e contrari a quei principi costituzionali che costituiscono il presidio della stessa convivenza democratica e l’ultima salvaguardia delle libertà fondamentali di tutti i cittadini, principi scritti nel nostro stesso Statuto e come tali in alcun modo negoziabili.
Sul fronte degli interventi processuali, non vi è dubbio che si sia inteso percorrere la via del garantismo soprattutto nel campo della libertà personale, attraverso l’introduzione dell’interrogatorio anticipato e della collegialità nelle decisioni cautelari (rinviata al 2026 per carenza di un numero sufficiente di magistrati). I dubbi espressi in ordine all’efficacia dell’interrogatorio anticipato potranno essere sciolti solo all’esito di una sperimentazione reale che possa fugare le perplessità espresse circa l’efficacia dello strumento. Al tempo stesso l’intervento sui profili procedimentali non potrà che essere accompagnato da un nuovo disegno dei limiti di applicazione delle misure in relazione al pericolo di recidiva, esigenza sostanzialmente estranea alla tutela del processo. Sui limiti alle impugnazioni si è ottenuta una modifica dell’art. 581 c.p.p., non soddisfacente ma ritagliata in maniera tale da porre seri problemi di costituzionalità della norma.
Si deve invece certamente rimarcare l’ottenimento di una importante estensione delle tutele apprestate dall’art. 103 c.p.p., storica battaglia dell’Unione, perseguita a garanzia della riservatezza di ogni forma di comunicazione con l’assistito e della tutela della funzione difensiva. Altrettanto importante l’intervento riformatore sul sequestro dei dati informatici che dovrebbe regolare un ambito di grande rilevanza in considerazione della quantità di dati sensibili conservati all’interno dei dispositivi tecnologici (pc e smartphone).
presunzione di innocenza
Sul fronte del rafforzamento della tutela della presunzione di innocenza si sta dando attuazione alla delega volta alla introduzione del divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari attraverso la modifica dell’art. 114 c.p.p. Nell’ambito delle recenti audizioni in Commissione Giustizia abbiamo avuto l’opportunità di segnalare la necessità di estendere tale divieto e di rivedere in particolare i profili sanzionatori stante la inadeguatezza della contravvenzione oblabile a tutelare un bene di tale rilievo, introducendo sanzioni di maggiore efficacia attualmente oggetto di studio e di approfondimento. Si tratta di riforme che vanno indubbiamente nella direzione giusta. Credo che dovremo difendere davanti alla Corte costituzionale l’abrogazione dell’abuso d’ufficio che insieme alla ridefinizione della fattispecie di traffico d’influenze ha segnato un importante passaggio riformatore, dal quale dovremmo trarre soprattutto la convinzione che il rimedio penale dovrebbe essere ricondotto nei limiti del diritto penale minimo.
La posizione dell’Unione è evidentemente una posizione scomoda. Perché siamo attaccati dalla maggioranza quando critichiamo le norme populiste e illiberali e siamo attaccati dalla minoranza quando appoggiamo il progetto di norme liberali e garantiste. Siamo da una parte nemici della libertà di stampa e fautori di “leggi bavaglio”. Ci cancellano dall’albo degli avvocati “democratici” perché vogliamo separare le carriere dei pubblici ministeri assoggettandoli all’esecutivo. Ci ritengono inaffidabili perché ci schieriamo sempre dalla parte degli ultimi e perché pratichiamo un garantismo ubiquitario. Perché non abbiamo timore di andare controcorrente mostrandoci solidali con l’accusato proprio quando il mostro mediatico-giudiziario ha deciso di stritolarlo. Ma si tratta di una posizione alla quale siamo abituati perché da sempre proclamiamo la nostra trasversalità e laicità. Non siamo un partito che abbia bisogno di alleanze. Il nostro solo partito ed i nostri soli alleati sono la Costituzione e il Giusto ed Equo processo.
Siamo stati spesso soli quando abbiamo criticato le misure di prevenzione, il sistema del doppio binario ed il 41-bis, isolati dal sospetto, se non dall’accusa (come già ai tempi del terrorismo), di fornire di fatto con le nostre critiche e le nostre rivendicazioni un supporto agli interessi mafiosi. E sappiamo cosa significhi, in questa terra che ci ospita, svolgere la professione in condizioni nelle quali, mentre il “giusto processo” è una vuota espressione, altissimi sono i rischi professionali fra la pressione dell’ambiente e il pregiudizio della contiguità. Si tratta di realtà nelle quali le carenze strutturali, la mancanza di personale amministrativo e di magistrati, diffuse nell’intero Paese, sono ancora più gravi e manifeste, tanto da costituire in sé causa di oggettiva limitazione del diritto di difesa. Così è quando i ruoli sono scoperti per anni, i rinvii delle udienze ed i tempi degli appelli cautelari incompatibili con ogni minima esigenza di giustizia.
Una divaricazione fra mezzi e fini, fra regole del processo e risultato, che finisce con il manifestarsi in maniera esemplare nel numero catastrofico di “ingiuste detenzioni” che in questo distretto calabrese raggiunge le sue cifre record rispetto all’intero territorio nazionale. Pur restando probabilmente quelle cifre la punta di iceberg di un fenomeno ancora più esteso.
Ma qui la realtà è segnata dalla contingente presenza del contrasto alla criminalità organizzata che ha imposto nel tempo la forma-processo più distante dalla pratica dell’accusatorio: il maxi-processo, ovvero il processo cumulativo nei confronti di centinaia di imputati detenuti, celebrato in spazi che rendono impossibile ogni vero e utile contraddittorio, che annientano il contatto dell’imputato con il proprio giudice e con il proprio avvocato. Un annientamento del giusto processo al quale dobbiamo trovare rimedio, ricordando che ogni retrocessione delle garanzie implica un contagio progressivo, così come il “doppio binario”, nato ed accettato come rimedio emergenziale, si è dapprima attestato come canone della normalità nel contrasto ai fenomeni di mafia, per poi estendersi, così come le misure di prevenzione, ai più disparati ed inaspettati ambiti del nostro sistema penale.
Non ripeto qui quale sia il mio pensiero sui limiti della poliedrica riforma “Cartabia”, di cui abbiamo discusso nel recente convegno bolognese8 con giovani e meno giovani leve della nostra avvocatura e con il nostro Centro studi, alla luce dei dati raccolti con encomiabile puntualità dall’Osservatorio Acquisizione dati giudiziari9, ma non posso non ribadire la necessità di dichiarare chiuso un ciclo di riforme che hanno reso per progressivi slittamenti e torsioni, il nostro codice accusatorio da un lato irriconoscibile e dall’altro inemendabile. Se la riforma “Cartabia” è stata segnata da una spinta volta alla efficientizzazione del processo perché nata sotto la cattiva stella del PNRR e della conseguente necessità di ridurre percentualmente il disposition time anche del processo penale, non vi è dubbio che la filosofia “utilitaristica” avesse da tempo soppiantato l’orizzonte valoriale del codice accusatorio, ed avesse già da tempo torto in senso contrario alla sua matrice garantista lo stesso principio funzionale della “ragionevole durata”.
Da molto tempo l’asse di equilibrio del processo si era spostato dal contraddittorio verso la fase delle indagini ed il principio di immediatezza e di oralità assieme a quello fondamentale della separazione dei fascicoli, si erano eclissati dalle nostre aule di giustizia. Complice l’assenza di una figura di “giudice terzo” mai maturata in un contesto culturale ostile alla introduzione del codice accusatorio, si è andata instaurando quella “egemonia delle Procure” che ha segnato di sé non solo l’organizzazione reale dell’ordinamento giudiziario e parallelamente la gestione correntizia del CSM, ma anche e con guasti ulteriori e profondi la stessa “rappresentazione sociale” del processo penale e dei suoi attori all’interno della collettività.
separazione delle carriere
Perseguiamo dunque il progetto di riforma della separazione delle carriere di giudici e PM da prima che la politica se ne facesse carico. E lo facciamo in maniera da sempre autonoma ed indipendente, laica e non ideologica. Siamo convinti infatti che la separazione delle carriere costituisce non un fine ma un mezzo. È lo strumento necessario ed allo stato non sostituibile per raggiungere l’obiettivo del giudice terzo, quale figura indispensabile del giusto processo ed interprete del modello accusatorio. Fra il momento ordinamentale e quello processuale vi è un legame strettissimo e un vincolo di implicazione indissolubile. Si tratta del vincolo che corre fra il modello ed il suo interprete. È risultato evidentemente impossibile interpretare ed applicare le norme del codice dell’88 inforcando, come fece anche la nostra Corte costituzionale, gli occhiali dell’inquisizione. Se anche il giudice persegue come il pubblico ministero la “cultura della preda” piuttosto che quella della tutela delle “regole della caccia”, il processo accusatorio diventa una irraggiungibile chimera. È in questa luce che abbiamo criticato anche la filosofia delle cd. “finestre di giurisdizione”, obbiettando che non basta aprire varchi dai quali il giudice per le indagini preliminari si affacci per controllare l’indagine del PM, se quel giudice non è un giudice “terzo”, ma colui che accompagna l’indagine verso il suo “scopo”. Perché, allora, non solo un reale controllo non si realizza, ma le “finestre di giurisdizione” finiscono con il trasformarsi pericolosamente nelle “porte dell’inquisizione”.
Inevitabile, dunque, che le nostre energie siano ora proiettate nella realizzazione della riforma costituzionale, ricordando con orgoglio che la proposta di riforma governativa ha interamente mutuato dal nostro progetto l’idea fondamentale costituita dalla formazione dei due consigli superiori della magistratura. Riconoscimento di originalità che già era venuto dalle altre forze parlamentari. Non ci appartengono le ulteriori proposte di riforma costituzionale del Governo aventi ad oggetto l’elezione dei due CSM per sorteggio e l’istituzione dell’alta Corte disciplinare.
La Giunta, in sede di prima audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali della Camera, ha tuttavia già espresso il proprio apprezzamento per tali proposte, manifestando disponibilità a discutere ogni ipotesi ulteriore (anche di temperamento del sorteggio o di differente composizione della Corte) respingendo tuttavia le critiche che erano state mosse alla proposta nel suo complesso da ANM e da altre parti politiche. Si è, tuttavia, tenuto fermo il contenuto della proposta di UCPI nella parte in cui si prevede – diversamente dalla proposta governativa - che alla separazione delle carriere corrispondano necessariamente due concorsi separati. E si è altresì raccomandato alla Commissione di valutare la nostra idea di introdurre una riserva di legge al fine di impedire ogni indebito conferimento da parte del CSM, come avvenuto in passato.
Nel corso del nostro ultimo incontro con il Ministro sono state confermate le intenzioni di procedere speditamente con l’iter parlamentare della riforma. Accogliamo assai positivamente tale rassicurazione con la prudente consapevolezza che solo uno sviluppo dei lavori assai celere che si concluda in prima lettura entro l’anno corrente potrebbe metterci in sicurezza in considerazione dei tempi tecnici della riforma costituzionale e del molto probabile passaggio referendario10. Inutile ribadire in questa sede che i prossimi mesi saranno per tale motivo impostati ad una espansione di tutte le attività di comunicazione volte alla maggiore diffusione delle idee che sostengono la riforma e di contrasto all’informazione di segno contrario, nonché di monitoraggio e di sostegno dell’attività interna al Parlamento ed al Governo.
Tutte le Camere Penali saranno chiamate a partecipare attivamente alle manifestazioni che saranno indette a livello nazionale ed a svolgere analoga attività di coinvolgimento delle realtà territoriali nel sostegno alla riforma.
La riforma della procedura
La Commissione governativa “Mura” nominata dal Ministro Nordio con la dichiarata intensione di riformare il codice di procedura, riconducendolo all’originario modello accusatorio del “Codice Vassalli”, ha visto sin dall’inizio nella sua composizione una assoluta preponderanza di magistrati (ivi compresi tutti i componenti dell’Ufficio Legislativo del Ministero) non sempre adesivi alla inequivoca formula istitutiva. Tuttavia la presenza di autorevoli rappresentanti del pensiero proprio dell’avvocatura penale dell’Unione (fra i quali due nostri Past President, membri della precedente Giunta e componenti del nostro Centro Studi Marongiu) ha consentito di aprire molti spazi alle ipotesi di riforma aderenti al recupero del modello. Si tratta di successi non trascurabili che non solo valorizzano la forza propositiva delle nostre idee, ma anche la necessità politica di operare un simile instancabile contrasto. Motivazioni che ci hanno indotto a permanere all’interno della Commissione con immodificata energia, formulando una richiesta di inserimento della rappresentanza della presente Giunta dell’Unione nelle persone del Presidente e del Segretario perché crediamo che l’Unione possa e debba dare il suo contributo ovunque vi siano spazi proficui per il dialogo e per lo sviluppo delle nostre idee.
La criticità rappresentata da molti aspetti della riforma “Cartabia”, le tensioni evidenti cui è sottoposto oramai da tempo il modello accusatorio e la conseguente ravvisata inidoneità di procedere ancora sulla via degli interventi correttivi parziali, ci hanno indotto a considerare la necessità di dare piuttosto avvio alla elaborazione di un progetto di riforma radicale che avesse proprio la diversa prospettiva di una organica e strutturata rifondazione del modello accusatorio i cui tratti essenziali si sono persi nel tempo imponendo evidenti e significative torsioni ai principi che avrebbero dovuto governarlo.
Si è così andata concretizzando l’idea di elaborare autonomamente una proposta di riforma del codice di procedura penale, quanto meno in forma di principi irrinunciabili che diano poi corpo ad una “legge delega”. Solo l’Unione può assumere su di sé un simile impegno. Si tratta di un progetto di grande respiro e di non facile realizzazione sotto il profilo delle numerose scelte tecniche ed ideologiche che richiede, ma certamente dotato di una formidabile carica politica che deve essere accompagnata dallo sviluppo di una importante iniziativa che sia in grado di comunicare il senso e l’importanza di tale impegno.
È così venuto inevitabilmente alla mente il riferimento “storico” costituito dal primo convegno nel quale i processualisti fautori della riforma del vecchio codice inquisitorio si incontrarono, gettando le basi di quelle elaborazioni che condussero solo molti anni più tardi al varo del codice Vassalli. Quello straordinario convegno si tenne infatti a Venezia, nel lontano 1961, nell’Isola di San Giorgio Maggiore, presso la Fondazione Cini. A quello storico evento partecipano giuristi del calibro di Francesco Carnelutti, che ebbe a presiedere i lavori, Alfredo De Marsico, Biagio Petrocelli, Remo Pannain, Girolamo Bellavista, Giuseppe Sabatini, Giandomenico Pisapia, Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, un giovanissimo Franco Cordero, Giuseppe De Luca e molti altri eminenti processualisti. A quella “riunione” fece seguito, nel 1962, l’istituzione, da parte del Ministro della Giustizia Gonella, che aveva seguito tutti i lavori del Convegno di San Giorgio, della prima Commissione per la riforma del codice di procedura penale. I verbali raccolti di quelle interlocuzioni costituiscono un patrimonio davvero insostituibile di riflessioni e di idee che costituiscono tuttora il nucleo irrisolto dei problemi attuali del processo penale.
L’idea è quella di tornare in quegli stessi luoghi con un grande evento nazionale alla cui realizzazione stiamo lavorando. Si tratta evidentemente di un evento dotato anche di una grande carica evocativa e di una evidente forza simbolica. Ciò in quanto l’evento si fa portatore di quello stesso spirito originario di affermazione di valori assiologici assoluti propri del processo penale che una visione utilitaristica ha nel tempo lasciato svanire, consentendo torsioni valoriali e sopraffazioni di senso non più tollerabili. Nella introduzione alla raccolta dei verbali di quei lavori, Giuseppe De Luca afferma che «un fatto è certo: nessuno ha difeso il sistema processuale vigente. Tutti hanno concordato, in linea generale, sull’opportunità di una riforma, resa più impellente da recenti e sconfortanti esperienze giudiziarie che hanno messo in luce le deficienze e le insufficienze dell’attuale ordinamento»11. Credo che non sfugga l’attualità di una simile affermazione e la necessità di dare un contributo di vitalità alla storia del nostro processo e di quel modello accusatorio rimasto irrealizzato. Anche a questo allude il titolo di questo Congresso straordinario, che rivendica con orgoglio la forza delle nostre idee.
La Fondazione Cini, con la efficace intercessione della Camera Penale Veneziana e del suo Presidente Renato Alberini, ci ha straordinariamente concesso la sua magnifica sede sull’Isola di San Giorgio Maggiore e quell’evento è stato programmato dalla Giunta per il 14-15 marzo 2025, dando a tutti voi il tempo per salvare la data e per organizzarvi. Il tempo per l’Unione di lanciarsi in una grande sfida orgogliosamente consapevole della propria forza, della vostra forza e della forza delle sue idee…..
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