- La vicenda della nave Humanity 1 presenta profili di contrasto con norme interne e internazionali per quanto attiene non solo al soccorso delle persone in mare, ma anche all’esame del loro diritto all’asilo.
- Da un lato, non si fornisce un porto sicuro a tutte persone soccorse, violando il diritto del mare; dall’altro lato, rimandare al largo coloro i quali non presentano problemi di salute, senza averne esaminato il diritto all’asilo, può configurare un respingimento collettivo in violazione di convenzioni internazionali.
- Infine, non pare corretto reputare che competente all’accoglienza e all’esame delle istanze di asilo sia lo Stato di bandiera dell’imbarcazione di soccorso. La nave non può essere considerata “luogo” di primo approdo, bensì “mezzo” per arrivare al luogo primo approdo.
Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, prova a superare Matteo Salvini, ex titolare dello stesso dicastero, ma in peggio. Con il decreto del 4 novembre scorso, firmato anche dai ministri della Difesa e delle Infrastrutture, ha vietato «alla nave Humanity 1 di sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il termine necessario ad assicurare le operazioni di soccorso e assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute». Nella notte fra i 5 e il 6 novembre, la nave è entrata nel porto di Catania e sono stati sbarcati solo coloro i quali presentavano situazioni precarie.
La valutazione effettuata in base alla “fragilità” – con sbarchi selettivi – non risponde a quanto previsto dalle regole internazionali. Da un lato, non si fornisce un porto sicuro a tutte le persone soccorse, violando il diritto del mare; dall’altro lato, rimandare al largo coloro i quali non hanno problemi di salute, senza averne esaminato individualmente il diritto all’asilo, potrebbe configurare un respingimento collettivo, in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu, art. 4 del Protocollo n. 4), oltre che della Convenzione di Ginevra (art. 33); infine, non si tiene conto del Regolamento di Dublino, ai sensi del quale competente all’esame della domanda di protezione internazionale è lo stato di primo approdo.
Le persone soccorse devono sbarcare
Il paese responsabile della zona Sar (Search and Rescue, Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi, Amburgo, 1979) in cui è accaduto l’evento critico deve fornire o assicurare sia fornito al più presto ai naufraghi un posto sicuro (place of safety, Pos). Ai sensi delle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78, 2004), elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo, agenzia delle Nazioni Unite), «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove:
- la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata;
- le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte;
- e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12).
Nelle Linee guida si afferma che le formalità vanno svolte a terra: «ogni operazione e procedura, come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco» (par. 6.20).
Pertanto, qualsiasi nave di soccorso deve sbarcare i migranti sulla terraferma quanto prima. Solo a terra possono essere assistiti e correttamente informati in una lingua ad essi comprensibile sui loro diritti. Ed è a terra che dev’essere consentito loro di esercitare il diritto d’asilo (art. 10, comma 3, della Costituzione) e il diritto alla difesa (art. 24 della Costituzione).
Pertanto, non basta accertare chi abbia bisogno di assistenza sanitaria per farlo sbarcare, come previsto nel decreto di Piantedosi. Il diritto a scendere a terra non solo per essere curati, ma anche per fare istanza di protezione internazionale, e semmai per ricorrere contro l’eventuale decisione di diniego, va garantito a tutte le persone a bordo, affinché non si possa realizzare un’ipotesi di respingimento collettivo.
Respingimento che si configura quando la situazione giuridica delle persone non sia valutata singolarmente e in maniera approfondita, accogliendole a terra. La formula edulcorata usata nel decreto del Viminale - «a tutte le persone che restano sulla imbarcazione sarà comunque assicurata l'assistenza occorrente per l'uscita dalle acque territoriali» - non vale ad attenuare il rilievo giuridico dell’atto del ministro.
Peraltro, nel 2012 l’Italia è già stata condannata per respingimento, nel caso Hirsi Jamaa, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha affermato che le difficoltà nel controllo dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso a provvedimenti in contrasto con la Cedu. L’attuazione di misure per impedire l’ingresso nel territorio resta soggetto al rispetto del divieto di espulsioni collettive. La Corte ha altresì affermato che risulta impossibile esaminare lo status delle persone sulle navi con procedure idonee a verificarne il diritto all’asilo.
A chi compete l’esame dell’asilo
Secondo il Regolamento di Dublino, lo stato «competente per l’esame della domanda di protezione internazionale» è quello le cui frontiere sono state varcate per prime (art. 13). Il ministro Piantedosi vuol far passare il principio per cui è lo stato di bandiera della nave a doversi occupare del riconoscimento dei migranti, dell’accoglienza e dell’esame delle istanze di asilo in quanto la nave costituisce territorio dello stato di cui batte bandiera (articolo 91, convenzione Unclos); quindi, rappresenta lo stato il cui suolo è stato toccato per primo dai migranti.
Ad esempio, una nave battente bandiera tedesca, come Humanity 1, è territorio tedesco, e sarebbe la Germania a doversi fare carico dei migranti dopo lo sbarco. Questa impostazione pare non condivisibile.
Innanzitutto, come spiegato, a bordo di una nave di soccorso l’esame delle istanze di protezione internazionale non si può fare; cioè la nave non è un posto dove il migrante può esercitare ogni suo diritto. Di conseguenza, la nave costituisce solo un “mezzo” attraverso cui i migranti sono portati nel luogo di primo approdo, non un “luogo”. Quindi, non può rappresentare essa stessa il luogo di primo approdo di cui al Regolamento di Dublino.
Lo è il paese di sbarco a terra. Inoltre, quando le regole internazionali parlano di posto sicuro come luogo ove la persona può esercitare i propri diritti, da quello alle cure mediche a quello all’asilo, non prevedono una differenziazione di luogo per l’esercizio di tali diritti. In altre parole, non si rinviene un distinguo tra il paese dove possono essere esercitati alcuni diritti e quello dove, in un momento successivo, ne possono essere esercitati altri, essendo il tema trattato unitariamente.
Quindi, il decreto del Viminale sembra in contrasto anche con il Regolamento di Dublino, oltre che con le convenzioni sul diritto del mare. E già solo sul piano della gerarchia delle fonti ciò pare un’aberrazione.
Oltre il danno, la beffa
Nel decreto interministeriale si dice che contro il provvedimento «potrà essere esperito ricorso al Tar del Lazio entro 60 giorni dalla notifica». Oltre il danno, la beffa: persone rimandate in mare, senza assistenza di traduttori, mediatori culturali e legali che spieghino loro come agire contro il provvedimento di divieto di sbarco, e spesso sprovviste di documenti, come potrebbero fare ricorso al tribunale? Il loro diritto di difesa, viene formalmente rispettato, ma sostanzialmente svuotato.
Un ricorso contro il decreto del Viminale è stato invece proposto dalla organizzazione Sos Humanity. Il braccio di ferro a colpi di diritto è destinato a proseguire.
© Riproduzione riservata