- Josef S., l’ex membro delle SS, oggi centenario, è a processo in Germania per il massacro di oltre 3mila persone nel campo di concentramento di Sachsenhausen.
- Ma perché si è aspettato 76 anni per processarlo? Dopo Norimberga, che dai tedeschi fu percepita come una giustizia dei vincitori sui vinti, nella Germania occidentale si ebbe una sorta di “amnistia fredda” grazie a un trattato con gli Alleati e, soprattutto, all’adozione di una legge che ridusse i termini di prescrizione.
- È meglio una giustizia tardiva che nessuna giustizia? Serve questo processo proprio in ragione del poco che si è fatto e a fronte del crescere di estremismi e negazionismi? La risposta non è semplice.
Un processo a un imputato di cento anni (quasi centouno) non si vede tutti i giorni. Aggiungete che i fatti contestati sono avvenuti ottant’anni fa e infine, se non bastasse, che il tutto non si svolge in un’aula giudiziaria, bensì in un palazzetto dello sport. Il piccolo tribunale della cittadina tedesca di Neuruppin nel Brandeburgo, infatti, non avrebbe potuto contenere giornalisti e curiosi. Pare quasi la perfetta messa in scena di ciò che, secondo il giurista Mark Osiel, dovrebbero essere i processi per i crimini di massa: un teatro morale, spettacoli monumentali dal valore pedagogico.
Stiamo parlando di quello che è noto come l’ultimo processo per i crimini del nazionalsocialismo e che si è aperto ieri, pochi giorni dopo l’avvio di quello a carico della (più giovane) novantaseienne, ex segretaria del lager di Stutthof, balzata alle cronache per il suo rocambolesco tentativo di fuga. Nel processo brandeburghese, l’imputato è Josef S. – detto Josi, come lui stesso ha rimarcato in aula – ex custode del campo di concentramento di Sachsenhausen. L’uomo è accusato di partecipazione nell’omicidio di 3.518 persone, fucilate o uccise nelle camere a gas.
Il volto coperto
L’imputato entra in aula appoggiandosi a un deambulatore e, finché le decine di fotografi non vengono allontanati, si copre il volto con il fascicolo processuale. Si identifica con chiarezza e lucidità alle domande della Corte d’assise e poi sceglie di non rilasciare dichiarazioni relative al capo d’accusa, ma afferma di essere disponibile, forse già nella seconda udienza di oggi, a raccontare della propria vita.
Sempre oggi prenderanno la parola anche le due parti civili che hanno scelto, fra le tante, di essere presenti in aula. Si tratta di due persone che all’epoca erano bambini nel ghetto di Varsavia, sopravvissuti al lager e oggi residenti in Francia e Olanda. Prima che l’imputato lasciasse l’aula in ambulanza, fra due pareti di lenzuola alzate dai poliziotti per impedire le fotografie, il procuratore ha letto il dettagliato capo d’imputazione. Si descrive il minuzioso e organizzato sistema di funzionamento del campo, dedito sia alla fucilazione immediata dei prigionieri sovietici che al concentramento e sterminio di ebrei, disabili, asociali e oppositori politici. Non si parla del ruolo dell’imputato, ma si afferma che lui, in quanto SS custode, svolgeva il suo lavoro consapevolmente e volontariamente, nella piena cognizione del proprio contributo al funzionamento complessivo del campo.
Ma perché si è aspettato 76 anni per processarlo? Secondo la vulgata, nessun paese come la Germania ha fatto i conti con gli orrori del passato, avvallati da una nazione intera, dove la resistenza fu minima. Ciò è sicuramente vero se si confronta l’elaborazione collettiva tedesca, ad esempio, con quella italiana. Tuttavia, se si guarda alla persecuzione penale dei singoli individui, i numeri sono esigui. Dopo Norimberga, che dai tedeschi fu percepita come una giustizia dei vincitori sui vinti, nella Germania occidentale si ebbe una sorta di “amnistia fredda” grazie a un trattato con gli Alleati e, soprattutto, all’adozione di una legge che ridusse i termini di prescrizione. L’amministrazione di Konrad Adenauer vide coinvolti esponenti del Reich, compreso Albert Kesselring, responsabile della campagna antipartigiana in Italia, condannato a morte dagli inglesi, poi graziato e divenuto consulente per il riarmo.
A portare Auschwitz nei tribunali tedeschi negli anni Sessanta fu il Procuratore Fritz Bauer, che tuttavia a sua volta era inquadrabile fra le vittime, in quanto ebreo, comunista e omosessuale. Ci volle un ricambio generazionale, il noto dibattito fra storici e poi, dal punto di vista giuridico, l’esperienza della seconda transizione post 1989 e dei processi alle guardie del Muro di Berlino, affinché la Germania riflettesse sul rapporto fra diritto positivo e giustizia e sui casi in cui i due non coincidono. Solo nel 2011 i tribunali tornano a occuparsi dei lager. A essere condannato, tuttavia, non fu un tedesco, ma un ex prigioniero ucraino, poi impiegato nel personale del campo di Sobibór: Ivan Demjanjuk. Tale condanna ha poi aperto una stagione giudiziaria tardiva, con cui la Germania ha per la prima volta giudicato quei pochi anziani ancora in vita, anche in assenza della prova del contributo diretto dell’imputato alle uccisioni. Fra questi, Oskar Gröning, il cui processo è raccontato nel documentario Netflix Il contabile di Auschwitz.
Le distinzioni legali
La giurisprudenza tedesca ha sempre operato una distinzione fra campi di puro sterminio, come Treblinka II o Belzec, e campi di concentramento dediti anche allo sterminio. Qui, mentre chi non superava la selezione veniva sterminato subito, un gran numero di deportati rimaneva a vivere come internato, nelle note pessime condizioni. Ad Auschwitz, il campo si estendeva per 171 ettari, con più di 4mila membri del personale. Ciò aveva portato la giurisprudenza ad affermare che nel campo potessero esserci anche condotte “neutrali” (il barbiere, il panettiere…) che non potevano considerarsi causalmente collegate all’evento dello sterminio, laddove non vi fosse la prova di un contributo diretto del singolo. In breve: essere impiegati ad Auschwitz e consapevoli dello sterminio non era sufficiente per essere ritenuti penalmente responsabili.
Le decisioni degli ultimi anni, a partire da quella di Gröning, non hanno apertamente sconfessato questa teoria, ma si sono sforzate, a volte con poca verosimiglianza, di indicare come anche una condotta apparentemente neutrale potesse avere un’efficacia causale agevolatrice non tanto del singolo omicidio, quanto del sistema dello sterminio. Si è ad esempio sostenuto che la presenza dell’imputato sulla rampa in uniforme, all’arrivo dei vagoni, costituisse una forma di deterrenza e una parvenza di regolarità volta a scoraggiare fughe.
Giustizia tardiva
L’effetto paradossale ora, dopo anni di disinteresse giudiziario, è vedere processati un centenario e una novantaseienne, significativamente negli stessi anni in cui le corti tedesche, a mezzo della cosiddetta giurisdizione universale, si ritengono competenti a giudicare criminali di guerra siriani (vedi il processo a Coblenza) e forse in futuro anche i responsabili dell’omicidio di Jamal Khashoggi. Sempre le autorità tedesche, negli ultimi vent’anni hanno negato l’estradizione dei quasi sessanta condannati in Italia per eccidi di civili come Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema. Oggi, in seguito alla morte accertata di tutti loro (nei loro letti), la presidenza della repubblica tedesca conferisce un’importante onorificenza al procuratore generale militare italiano Marco De Paolis, che quei tedeschi li portò a processo.
È meglio una giustizia tardiva che nessuna giustizia? Serve questo processo proprio in ragione del poco che si è fatto e a fronte del crescere di estremismi e negazionismi? La risposta non è semplice. È un’occasione in più per riflettere sul complesso rapporto fra giustizia penale e memoria storica, ma anche per interrogarsi su come la memoria possa svilupparsi laddove manchi l’accertamento penale: un tema importantissimo soprattutto per l’Italia in relazione ai molti crimini fascisti – compresi quelli nelle colonie, in Spagna e nei Balcani – impuniti e dimenticati.
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