- Dopo due anni di covid, anche in carcere è tornata la normalità con i piccoli festeggiamenti di Natale senza più il distanziamento e il divieto di ingresso dei volontari e le visite delle famiglie.
- Eppure, il vero regalo di natale che i detenuti aspettavano non è arrivato: il rispetto della promessa dei 75 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi, per i due anni di covid, e la proroga per permettere di rimanere in semilibertà chi lo è già da due anni, in scadenza il 1 gennaio.
- «Non prendiamoci in giro: il carcere, anche prima del covid, era un disastro ed essere tornati così è un fallimento del sistema», è il commento di Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa Giotto che opera nel carcere di Padova e gestisce il lavoro esterno.
Il primo Natale in carcere dopo le due anni di restrizioni per il covid è un ritorno alla normalità, per questo non c’è nulla da festeggiare.
Le festività coincidono sempre con i momenti più duri per i detenuti e la pandemia non ha fatto altro che amplificarne la durezza, a causa dei divieti di visita e la paura del contagio. Nei giorni di festa la solitudine e le privazioni si sentono di più, insieme alla lontananza o l’assenza degli affetti, e le attività nelle strutture sono ridotte al minimo o azzerate.
Ora che lo stato d’emergenza è finito, il corso della vita carceraria è ripreso normalmente, come anche la tradizione dei piccoli festeggiamenti natalizi. A San Vittore, a Milano, «abbiamo fatto una festa, con cioccolatini e qualche panettone, i detenuti hanno costruito un presepe nella rotonda e in tutti i reparti sono comparsi addobbi e alberi di Natale», ha detto suor Anna Donelli, volontaria in carcere da più di dieci anni. In buona parte delle carceri, inoltre, alcune delle introduzioni tecnologiche dovute al covid sono rimaste: «Telefonate più frequenti per sentire meno distanti le famiglie, colloqui anche in alcune domeniche e ora senza il plexiglass a separare le persone, ma soprattutto la possibilità di fare videochiamate».
Una conquista per i detenuti, che così possono con uno sguardo ritornare a casa o vedere di nuovo il viso di genitori anziani o dei bambini, che difficilmente possono raggiungerli in carcere. Eppure, il vero regalo di natale che aspettavano non è arrivato: i 75 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi per i due anni di covid, previsto dalla riforma Ruotolo.
Nessuna vittoria
«Tutti aspettavamo un segnale: noi garanti, i detenuti e anche la polizia penitenziaria. Invece non c’è stato», ha detto Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Lazio. Anzi, l’ultimo decreto del governo ha imposto che il 1 gennaio i semiliberi da due anni debbano tornare in carcere.
«Noi garanti stiamo scioperando a staffetta contro questa assurdità: che senso ha appesantire un sistema già in crisi rimettendo in cella chi ha dimostrato un buon reinserimento nella società?». Per correggere questo non senso basterebbe un emendamento del governo in Finanziaria: «Anche all’ultimo minuto, basta la volontà politica» è l’appello.
Del resto, questa è la normalità a cui le carceri sono tornate dopo il covid: sovraffollamento, 82 suicidi in un anno e pochissima speranza di reinserimento sociale dei detenuti. «Non prendiamoci in giro: il carcere, anche prima del covid, era un disastro ed essere tornati così è un fallimento del sistema», è il commento di Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa Giotto che opera nel carcere di Padova e gestisce il lavoro esterno. Secondo lui, un ritorno alla situazione pre-covid è tutt’altro che una vittoria e anche i piccoli miglioramenti come le videochiamate, pur positivi, non vanno enfatizzati, «anche perchè oggi è più razionale, oltre che sicuro: è più facile controllare le telefonate del detenuto rispetto alle lettere».
Eppure il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha mostrato anche con gesti simbolici la sua attenzione al mondo carcerario e la volontà di intervenire sul sistema malato. Secondo, Boscoletto, però, al carcere non servono riforme, ma solo l’applicazione delle regole già esistenti: «Il motto della polizia penitenziaria è vigilando, redimere. Bisognerebbe riportare al centro del carcere il suo scopo: la riabilitazione».
Invece, i dati fotografano una realtà diversa: su 56mila detenuti, quelli che lavorano e sono stati inseriti in un percorso di reinserimento serio sono tra i 600 e i 700, la maggior parte dei quali nel carcere di Padova e negli istituti di Lazio e Lombardia. Nelle altre carceri, le associazioni di volontariato riescono a imbastire progetti che però difficilmente permettono una vera occasione di reinserimento sociale.
Circa due terzi dei detenuti, inoltre, soffrono di patologie di vario tipo: psichiatrichie, tossicodipendenza, ludopatia, invalidità di vario grado. «Per cambiare qualcosa bisogna farsi governare dai dati e dall’oggettività: senza lavoro non c’è reinserimento e non c’è recupero. Il resto sono solo chiacchiere, che trasformano il carcere in uno strumento di consenso o di guerra tra politica e magistratura», è il ragionamento di Boscoletto.
Intanto, in ogni carcere le associazioni di volontariato fanno quel che possono, grazie anche alla disponibilità delle direzioni penitenziarie: piccoli pranzi di gruppo nei reparti meno numerosi, un brindisi per gli auguri a Padova con gli oltre cento lavoratori detenuti, il 26 dicembre a Regina Coeli e Rebibbia ci sarà un giro di visite con piccoli regali e pranzo con lasagne. «Ogni piccola cosa serve, per far sentire ancora persone anche coloro che hanno sbagliato», è la conclusione di suor Anna. Nell’attesa che le istituzioni, dopo tante parole e ancora poche iniziative concrete, inizino a dare risposte. Magari proprio in questa Finanziaria con l’emendamento sui semiliberi.
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