L’ora è tarda, ma una soluzione ancora non si vede per completare la composizione della Corte costituzionale.

La pratica è ancora sulla scrivania della premier Giorgia Meloni ed è una di quelle più spinose, perché è attenzionata con attenzione dal Quirinale. Ad ogni occasione, Sergio Mattarella ma anche l’attuale presidente della Consulta Augusto Barbera hanno sollecitato la necessità che il parlamento trovi la mediazione necessaria per eleggere il quindicesimo giudice mancante da oltre un anno, eppure la settimana scorsa anche la nona votazione è andata a vuoto. E la cosa ormai sta infastidendo e non poco il Colle, non solo per un fatto di metodo.

Il 21 dicembre, infatti, termineranno il mandato altri tre giudici di nomina parlamentare (tra cui il presidente Augusto Barbera) e allora sì che la Consulta rischierebbe la paralisi. Il regolamento della Corte, infatti, prevede che il collegio non possa funzionare con meno di 11 componenti, dunque basterebbe un’influenza stagionale di uno dei membri per bloccare i lavori.

Eppure ad oggi – secondo il calendario della Camera fino a fine mese – non sono previste convocazioni per la decima votazione. Fonti di centrodestra preventivano che, alla fine, la strategia del governo sia quella di spingersi fino a gennaio (una volta approvata anche la legge di Bilancio) per eleggere “a pacchetto” tutte e quattro le toghe. Anche a costo di scontentare il Colle.

Infatti un accordo sul singolo nome è stato impossibile da trovare con le opposizioni - complice l’incaponimento di Meloni nel far eleggere il suo consigliere giuridico e autore della riforma del premierato, Franceso Saverio Marini – mentre con quattro la quadra sarà più facile da trovare.

Con un elemento di attenzione, però: secondo le regole costituzionali, anche se si potrà votarli tutti insieme, i giudici avranno bisogno di maggioranza diverse. In concreto, il giudice che prenderà il posto di Silvana Sciarra dovrà ottenere i tre quinti del parlamento in seduta comune (dopo la seconda votazione, la maggioranza scende); per gli altri tre, invece, servirà la maggioranza qualificata dei due terzi, perché si tratterà della prima votazione. Un dettaglio, ma che imporrà al centrodestra di trovare una maggioranza molto larga perché il “pacchetto” superi lo scrutinio segreto.

I nomi

Finalmente, dopo il decimo voto a vuoto, sono iniziati i primi prudenti contatti tra maggioranza e opposizione. Un terreno comune apparentemente si è trovato: due nomi spetteranno al centrodestra, uno all’opposizione e il quarto sarà un tecnico considerato super partes. Un compromesso che dovrebbe dimostrare la buona volontà dell’alleanza di governo, visto che in prima battuta l’intenzione era quella di esprimere tre giudici su quattro.

Da questo schema con un nome tecnico si parte a ragionare, ma la situazione è tutt’altro che sbloccata. «Ora nessuno ha davvero la testa per decidere», spiega una fonte di governo, riferendosi al tour de force che aspetta la maggioranza da ora a fine anno, che non lascerebbe molto tempo per i bilancini della Consulta.

 Sul fronte di Fratelli d’Italia, tuttavia, Meloni considererebbe il nome di Saverio Marini non negoziabile. La premier avrebbe dato la sua parola al giurista e ha intenzione di mantenerla. Formalmente, infatti, non è nemmeno mai stato bruciato. Nonostante sia stato molto pronunciato durante l’ottava votazione, quando il centrodestra aveva tentato lo sfondamento precettando tutti i propri parlamentari in aula con il mandato di votare Marini, alla fine il blitz è saltato il voto è andato in bianco.

Un posto – quello di FdI – è dunque preso. Il secondo, invece, dovrebbe spettare a Forza Italia, che può mettere in campo una rosa di nomi. Quelli che girano con maggiore insistenza sono quello del senatore Pierantonio Zanettin, avvocato di Vicenza e quello del viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a sua volta avvocato ma a Bari. Entrambi vantano ampia esperienza parlamentare nel settore della giustizia, ma la loro provenienza territoriale non sarebbe elemento secondario nel giudizio che spetta al segretario del partito, Antonio Tajani. Come fanno notare fonti interne, infatti, il nord avrebbe già una nutrita rappresentanza e dunque ora per la Consulta si dovrebbe privilegiare un esponente del sud.

L’incognita donna

A non essere ancora fuori dalla corsa sono anche due nomi femminili. C’è la ministra veneta Elisabetta Casellati, sempre presente tra i papabili in nomine che riguardano la giustizia, ma con il caveat del fatto che aprirebbe un vuoto nella compagine ministeriale. Si starebbe facendo largo anche il nome della costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni, attualmente Vice Presidente del Garante per la protezione dei dati personali. Il suo nome potrebbe essere tenuto in considerazione anche in quota tecnica, considerandone il profilo e anche la potenziale trasversalità nel centrodestra. Proprio la questione donna è dirimente: una dovrà far parte del quartetto, visto anche che una degli uscenti è Silvana Sciarra, e ancora non è chiaro in quale “quota” cadrà.

Come profilo tecnico, un altro nome circolato insistentemente è quello di Roberto Garofoli, ex capo di gabinetto al Tesoro ed ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Draghi a Palazzo Chigi. Secondo i retroscena, il suo nome sarebbe stato proposto dalla segretaria dem Elly Schlein a Meloni, ma – se rimarrà in lizza – dovrà vedersela con la contrarietà già espressa dal Movimento 5 Stelle. Tra il Movimento e Garofoli, infatti, non corre buon sangue: nel dicembre 2019, infatti, proprio gli attacchi dei grillini lo costrinsero alle dimissioni dal ruolo di capo di gabinetto del ministro Giovanni Tria, a causa di una norma poi stralciata nel dl Fiscale. 

Anche all’opposizione il rebus non è di facile soluzione. Il Pd è diviso in una sfida tutta toscana: da un lato fonti vicine alla segretaria hanno ipotizzato il nome del costituzionalista di Pisa Andrea Pertici, che è anche dirigente dem; dall’atro il fronte riformista pensa all’ex deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti. Nomi che però rischiano di scontare proprio ciò che l’opposizione contestava al nome di centrodestra Marini: una evidente marchiatura politica. A disposizione, poi, rimane anche sempre il nome dell’ex presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti, Massimo Luciani.

Secondo fonti dem, tuttavia, c’è prima di tutto da sbrogliare con i pontieri meloniani l’incognita su chi esprimerà il nome femminile: se non lo farà la maggioranza, toccherà all’opposizione e questo riaprirà il toto-nomi.

Dal punto di vista giuridico, infine, viene fatto notare un ulteriore problema intorno a una assegnazione così schematica dei nomi per quote. Impostando in questi termini il ragionamento pubblico, si legittima un pensiero: che il “tecnico” sia un giurista super partes, mentre gli altri tre, brandizzati da un partito, le braccia armate dell’uno o dell’altro. Illazione, questa, inaccettabile per un giudice costituzionale. Eppure, come ha detto l’attuale presidente Augusto Barbera al Foglio, «il costituente volle che cinque giudici fossero eletti dal parlamento», e «non è che questi siano eletti dallo spirito santo ma dai gruppi parlamentari» e anche nella prima repubblica «venivano scelte persone che avevano svolto attività politica» senza che questo abbia mai guastato gli equilibri della corte.

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