Il governo chiede aiuto al terzo settore e con il Cnel prova ad affrontare il problema del sovraffollamento carcerario
L’idea è anche quella di dare più possibilità chi ha già scontato la pena: sono troppo pochi i detenuti che lavorano
Il lavoro è lo strumento fondamentale per rendere il carcere un luogo di riabilitazione e reinserimento sociale per i detenuti. Attraverso il lavoro, dentro e fuori dal carcere, i detenuti iniziano un vero percorso che rende il tempo della pena non solo afflittivo ma anche un’occasione per trovare una nuova strada lontana dalla delinquenza.
Per questo il ministero della Giustizia e il Cnel hanno sottoscritto un accordo interistituzionale nel 2023 che parte da questo presupposto. Con un obiettivo finale riassunto nello slogan: “Recidiva zero”. Una sfida ideale, come ha spiegato il presidente del Cnel Renato Brunetta alla presentazione dell’iniziativa, che ha come finalità quella di abbassare il più possibile un numero: il 68 per cento di recidiva. Ovvero, il dato per cui chi ha commesso reati che lo hanno portato in carcere nel 68 per cento dei casi ne commetterà altri.
I numeri
Ridurre la recidiva è considerato dal ministero della Giustizia anche uno dei metodi più efficaci per ridurre il sovraffollamento carcerario, che rimane oggi su soglie estremamente preoccupanti. I detenuti attualmente sono 61mila, con un tasso di sovraffollamento del 119 per cento che però in alcune strutture tocca percentuali molto più alte, con un numero di suicidi che ha già toccato i 30 dall’inizio dell’anno.
Di questi detenuti, 5.980 finiranno di scontare la pena entro l’anno ed è in particolare su di loro che sono pensati i percorsi di formazione e inserimento lavorativo, per innescare un circuito virtuoso che impedisca che queste persone tornino a delinquere e finiscano di nuovo in carcere.
Attualmente i numeri sono desolanti. La maggior parte dei detenuti sconta la pena chiuso nella propria cella, senza occasioni di formazione, apprendimento e rieducazione. A lavorare sono solo 19.153 reclusi, di cui la quasi totalità però è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e quindi con lavoretti interni al carcere come la mensa e le pulizie solo per poche ore al giorno o al mese, mentre solo l’1 per cento è impiegato con imprese private e il 4 presso cooperative sociali.
Con un effetto evidente: una volta scarcerati, quel lavoro non potranno certo continuare a farlo e ritorneranno nella società senza alcuna prospettiva solida di trovare un impiego e ricominciare la propria vita. Peraltro le realtà private come cooperative sociali, aziende e associazioni, scontano tutte le difficoltà di interfacciarsi con un mondo complesso come quello carcerario.
Le prospettive
Per provare a cambiare la situazione, il Cnel si è posto come facilitatore di un incontro tra domanda di lavoro e offerta, in modo da creare un meccanismo virtuoso. «Più lavoro, più istruzione, più formazione, più reinserimento», è stato il riassunto offerto da Brunetta, che ha indicato quali sono i principali problemi: l’offerta formativa nelle carceri non è allineata con il mercato del lavoro, i progetti spesso sono discontinui, manca una vera profilazione delle competenze dei detenuti, che quindi sono incollocabili nel mercato del lavoro.
Di qui l’intesa tra ministero e Cnel, «in un patto di corresponsabilità offerto a tutte le realtà che decideranno di fare rete, amplificando così competenze, esperienze, opportunità e risorse».
Il processo si articola su due livelli. Il primo riguarda la predisposizione di un pacchetto di norme per semplificare le procedure e ottimizzare l’organizzazione, per esempio per una piena equiparazione del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria agli standard dei contratti nazionali di lavoro di riferimento. Ma anche la piena applicazione della legge Smuraglia, che prevede sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all'esterno.
Il secondo e più innovativo è invece quello di facilitare l’incontro tra la realtà penitenziaria e ministeriale con il terzo settore e la società civile, così da mettere in contatto il mondo fuori e il mondo dentro al carcere in quella che è stara definita una «cultura imprenditoriale». In altre parole: perché si crei un meccanismo davvero virtuoso per tutte le parti in causa, il reinserimento dei detenuti deve essere considerato un investimento utile e non una sorta di beneficienza mascherata.
I progetti
I soggetti impegnati nel progetto sono sia istituzionali sia privati. Sono coinvolti il Garante nazionale dei detenuti, la Cassa delle ammende, la conferenza dei presidenti delle regioni, l’Anci e l’Ente nazionale del microcredito oltre ovviamente al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia e al ministero dell’Istruzione. Tra i privati, invece, ci sono la fondazione Severino onlus e l’università Luiss, l’Unioncamere, Assolavoro, la comunità di Sant’Egidio, la fondazione San Patrignano e Associazione italiana per la direzione del personale.
Alla giornata di studio organizzata dal Cnel, però, hanno preso parte oltre trecento altri soggetti interessati a creare rete, come la Compagnia delle opere, che è una rete associativa con la particolarità di associare sia soggetti profit che non profit, che ha carattere nazionale e da tempo si occupa del sistema carcere.
Con tre livelli di intervento: il lavoro dentro e fuori dal carcere attraverso l’opera di diverse cooperative sociali; la formazione e l’orientamento professionale sia di minori che di adulti; la ri-socializzazione, grazie associazioni di volontariato che sostengono i detenuti e le loro famiglie con abbigliamento, pacchi alimentari e anche aiutandoli nella ricerca di una abitazione quando il detenuto viene rimesso in libertà e fa fatica a trovare chi gli affitti un alloggio.
Concretamente, i progetti già avviati dagli associati riguardano soprattutto strutture penitenziarie del nord Italia, come gli istituti penitanziari di Monza, di Opera, di Bollate o il Due Palazzi di Padova.
«I detenuti lavorano a progetti molto diversi: si va da attività che richiedono un buon livello di specializzazione, come quelle legate alla commessa da parte di una azienda che fa colonnine per la ricarica delle auto elettriche, fino a lavori di assemblaggio più semplici. Un altro associato, invece, lavora con i minori e li forma come elettricisti in un percorso professionale riconosciuto, assumendoli come apprendisti in una cooperativa», ha spiegato il presidente della Cdo – opere sociali, Stefano Gheno.
Il lavoro più complessivo è ancora agli inizi: chi opera con i detenuti è consapevole che le difficoltà che si incontrano dentro il carcere sono solo speculari a quelle che si incontrano fuori, come dimostrano i numeri ancora ridotti di detenuti inseriti nei progetti. «Siamo certi che l’inserimento lavorativo sia davvero uno strumento efficace per dare un’opportunità di nuova vita senza delinquere alle persone che hanno sbagliato», ha detto Gheno, «Siamo qui oggi perché speriamo che il Cnel possa dare un contributo per aprire nuove possibilità di inclusione per chi è in carcere e chi ne esce».
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