Il governo Meloni vuol ripristinare un’idea piuttosto datata del rapporto tra politica e giustizia: il parlamento sovrano fa le leggi, i tribunali si limitano ad applicarle.

Secondo questa concezione d’antan, i giudici, non legittimati dal suffragio popolare, non solo non potrebbero valutare le leggi, ma dovrebbero persino astenersi dal commentarle. Dovrebbero quindi agire da distaccati e macchinici applicatori. A complicare il quadro c’è una delle tendenze tipiche delle democrazie esecutive, quelle cioè che si collocano sulla scia ideale del modello ungherese.

Le democrazie esecutive riesumano un concetto mistico del rapporto tra volontà popolare e governo: di contro alla litigiosa frammentazione dei parlamenti, il potere esecutivo saprebbe cogliere le esigenze più intime del popolo e saprebbe pertanto fornire l’interpretazione autentica, dunque indisputabile, delle leggi prodotte dal parlamento. Insomma, il vertice della complessa macchina istituzionale sarebbe il governo, vero scrutatore del cuore nazionale.

Questa concezione era forse adatta agli stati liberali di inizio Novecento, quando la Corte suprema era vista come una stravaganza tutta statunitense. In Europa, al tempo, non era ammissibile che un potere tecnico-burocratico come il giudiziario potesse giudicare l’azione della sorgente suprema del diritto legittimo, ovvero il potere legislativo.

Né era ammissibile che quel potere, puramente applicativo, potesse far da freno alle attività dell’esecutivo, ossia quell’organo vitale che è chiamato a imprimere un indirizzo politico alla vita della comunità. Il potere giudiziario era e doveva rimanere al servizio degli altri organi dello stato.

Il «governo dei giudici»

Si dovette attendere il 1920 perché, per la prima volta in Austria, Cecoslovacchia e Liechtenstein, si attuasse l’esperimento di corti con potere di revisione sulla legittimità costituzionale delle attività legislative e amministrative. Ciononostante, i difensori di questo modello, allora innovativo, avevano un gran daffare nel dissipare le angosce della maggioranza dei loro colleghi e concittadini rispetto all’introduzione di tali corti. Dominava il timore che la loro attività di supervisione favorisse l’instaurazione di un «governo dei giudici», secondo la celebre formula coniata nel 1921 dal giurista francese Édouard Lambert.

L’orrore diffuso nella sensibilità politica di quello scorcio di secolo era che il giudiziario potesse farsi arbitro ultimo della legittimità degli altri due poteri dello stato, quindi inibirne l’azione in modo del tutto discrezionale. Questo timore riecheggiò stentoreo persino negli accesi dibattiti dell’Assemblea costituente italiana, e spiega altresì le difficoltà che la Corte costituzionale dovette superare prima che acquisisse appieno i poteri che le spettano per costituzione.

Ma, appunto, si parla di un secolo fa – e in un secolo le cose sono cambiate sino a rovesciarsi, con buona pace delle democrazie esecutive. Oggi le Corti, soprattutto quelle più alte e soprattutto nel dialogo tra loro, sono tutrici di una “superlegalità costituzionale”. Si tratta di un complesso insieme di principi e valori affermatisi a livello soprastatale, in modo particolare nelle carte internazionali dei diritti o tramite le sentenze di tribunali come la Corte di giustizia dell’Unione europea o la Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il lavoro di queste corti richiede certo un esercizio di equilibrio, nel rispetto delle competenze delle legislazioni nazionali e del principio di sovranità parlamentare; eppure, questa superlegalità costituzionale delinea una cornice normativa che limita l’azione dei parlamenti e permette di valutare la legittimità politica e morale dell’attività governativa.

Questo reticolato normativo soprastatale consente di fatto e di diritto alle Corti nazionali di giudicare l’azione del legislativo e dell’esecutivo, ben al di là della funzione tecnico-burocratica di applicazione delle leggi. È per questa ragione che le democrazie esecutive aspirano a riabilitare un rapporto primo-novecentesco tra politica e giustizia, che sottoponga a vaglio governativo l’azione dei giudici e restituisca preminenza normativa alla legislazione nazionale.

Questa fascinazione nostalgica si traduce sempre più in progetti di riforma illiberale dei sistemi di giustizia. E c’è il rischio che, ben più delle molte messinscena da vaudeville, la vieta retorica della sacralità della volontà popolare giustifichi, agli occhi della cittadinanza, una stretta sul giudiziario potenzialmente letale per qualsiasi regime democratico.

© Riproduzione riservata