- Il referendum sulla “giustizia giusta” è stato giudicato conforme alla legge dalla Cassazione, ma è stato depositato grazie alle delibere di 9 consigli regionali invece che con le firme raccolte ai banchetti.
- Secondo i vertici di Lega e del Partito Radicale il tema non esiste. Si è scelta questa via «per accelerare l’iter e mettere al sicuro il referendum», ha detto la tesoriera radicale Irene Testa.
- Eppure, la decisione di non depositare le firme non è affatto neutra e provoca effetti sia pratici (non si incassano i rimborsi nè lo spazio sui media) che politici nel Partito Radicale. Oltre a far sorgere dubbi sulla correttezza della raccolta firme.
Ufficialmente tutto si è concluso nel migliore dei modi: il referendum sulla “giustizia giusta” è stato giudicato conforme alla legge dalla Cassazione e, se passerà il vaglio di ammissibilità della Consulta, potrà svolgersi tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi.
Eppure, c’è un aspetto oscuro: a sostegno dei sei quesiti sono state depositate le delibere dei consigli regionali di Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto. Non sono state invece utilizzate, e dunque diventano carta straccia, le migliaia di firme raccolte nei banchetti organizzati dal comitato promotore, formato dall’inedito duo Lega-Partito radicale.
Secondo la Lega le firme raccolte sarebbero più di 4 milioni, circa 700mila per ognuno dei sei quesiti. Tuttavia, si è preferito non sottoporle al vaglio della Cassazione e scegliere la strada sicura – per quanto la meno utilizzata – delle delibere regionali.
Per i vertici leghisti e del Partito radicale il tema non esiste. Si è scelta questa via «per accelerare l’iter e mettere al sicuro il referendum», ha detto la tesoriera radicale Irene Testa, confermando che la scelta è stata presa in un incontro con Matteo Salvini tre giorni prima del deposito e con Roberto Calderoli un giorno prima. Infatti, «faremo insieme alla Lega anche la campagna per il sì al referendum, quando si celebrerà». Eppure, la decisione di non depositare le firme non è affatto neutrale e provoca effetti sia pratici sia politici. Senza firme depositate il Partito radicale non sarà parte del comitato promotore, di cui invece saranno membri solo i delegati regionali: tutti leghisti, visto che le regioni sono tutte governate dal centrodestra.
Questo significa che il partito non rientrerà delle spese sostenute per la raccolta firme (anche se da dividere insieme alla Lega), che sono ulteriormente lievitate perché nelle ultime settimane è stata attivata anche la firma digitale con lo Spid, con cui si sono raccolte 18mila sottoscrizioni al costo di circa un euro l’una. Inoltre, non gli spetterà nemmeno lo spazio riservato per legge sui media per promuovere il referendum.
Politicamente, il Partito radicale fresco di tre giorni di congresso sta ribollendo: è vero che le firme raccolte sono state poche, appena 25mila secondo la relazione del segretario Maurizio Turco, ma è anche vero che sono costate fatica agli autenticatori che hanno lavorato tutta l’estate. E la fatica è anche politica, vista la necessità di andare a braccetto con la Lega. Inoltre, la scelta di non depositare le firme è stata del tutto inaspettata per i militanti: «Tutto è stato gestito in gran segreto, fino al 29 ottobre sapevamo che il giorno dopo saremmo andati a depositare le firme in Cassazione, anche se nessuno ci aveva ancora detto quante fossero alla fine», dice una di loro.
Quante sono davvero
A sollevare la cortina di silenzio, però, è servito l’intervento pubblico dell’avvocata Maria Brucale, che ha spiegato come le firme avrebbero comunque potuto essere depositate insieme a quelle dei consigli regionali. «Avremmo dimostrato un’attenzione e una volontà di popolo e noi del Partito radicale non avremmo consegnato la nostra idea di giustizia alla lente distorcente della lega di Salvini. Ma abbiamo rinunciato».
Proprio quello del numero finale di sottoscrizioni è l’elemento su cui manca l’ufficialità. Esiste il racconto in un comunicato della Lega di «ben 368 scatoloni che hanno riempito tre furgoni. Ci sono anche sei hard disk che contengono le firme digitali e i certificati elettorali». Però senza il vaglio della Cassazione la certezza non c’è.
La sensazione che serpeggia, invece, è che qualcosa sia andato terribilmente storto. «Forse le firme ci sono ma non sono state raccolte ad opera d’arte, o forse non ci sono proprio», dice un iscritto radicale contrario al mancato deposito. Ma il Partito Radicale non avrebbe potuto far altro che accettare la scelta della Lega di procedere coi consigli regionali, viste le sue poche firme raccolte. Anche perchè, viene fatto notare, la sede del comitato promotore è stata collocata a via Bellerio, in casa della Lega, e lì sarebbe stata gestita la regia dell’operazione.
La certezza è che a reggere poco è la tesi di velocizzare l’iter di Cassazione: il vaglio della Consulta sarà in gennaio e la Suprema corte è forte anche di un surplus di addetti destinati, visto l’arrivo delle firme anche dei referendum sulla cannabis e sull’eutanasia.
Un altro dato è che le 700 mila firme a quesito dichiarate sono abbondantemente sotto la soglia del milione pronosticato da Salvini al momento del lancio del referendum. E che nelle ultime settimane si è corsi alla costosa attivazione dello Spid. Segno che, forse, dietro la scelta di depositare le firme dei consigli regionali ci sia l’amaro retrogusto di un fallimento rispetto alle rosee aspettative di mobilitazione pubblica.
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