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È in corso uno scontro tra Consiglio di Stato e Csm sulla sindacabilità del giudizio nelle nomine dei magistrati. Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, irrigidendo ancora le regole, aumenterà il rischio ricorsi.
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Di fatto il Consiglio di Stato, sentenza dopo sentenza, ha costruito una giurisprudenza che gli assegna precisi margini di sindacabilità su una prerogativa costituzionale del Csm sulle nomine, che i più intransigenti difensori dell’autonomia della magistratura considerano invece insindacabile.
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La riforma prevede la codificazione dei criteri sulla base dei quali effettuare le nomine, raccogliendo le circolari del Csm. Proprio questa codificazione produrrà un irrigidimento dei criteri, a quel punto immutabili, se non attraverso un nuovo atto legislativo del parlamento.
La crisi del Consiglio superiore della magistratura ha assunto molte forme, l’ultima è quella della sconfessione delle nomine più importanti.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha ribaltato il giudizio del Tar Lazio e accolto il ricorso del magistrato Angelo Spirito, annullando le delibere del Csm del 2020 con cui indicava Pietro Curzio primo presidente della Cassazione (e membro di diritto del Csm) e Margherita Cassano presidente aggiunta.
Queste decisioni, che seguono l’annullamento della nomina a procuratore di Roma di Michele Prestipino, pur se prese in una camera di consiglio del 25 novembre 2021 sono state depositate dai magistrati di palazzo Spada appena sette giorni prima dell’evento istituzionale più importante: l’apertura dell’anno giudiziario di Cassazione.
Verosimilmente Curzio non potrà prendere la parola, anche se è fissato un plenum del Csm che potrebbe rinominare sia lui che Cassano con una aggiunta di motivazione, in modo da superare i vizi indicati dalle sentenze amministrative.
Dal punto di vista della crisi del sistema giustizia, però, si aggiunge un nuovo allarmante capitolo. Allo scontro (ormai datato) tra magistratura e politica si aggiunge in cortocircuito interno tra magistrature in merito alle nomine negli uffici direttivi.
Il contesto vede il Csm, organo costituzionale, che ha il potere di decidere con criteri discrezionali le nomine. L’atto, però, è di tipo amministrativo e dunque ricorribile – per il candidato che non sia stato nominato – davanti al Tar e poi al Consiglio di Stato. L’interrogativo riguarda il tipo di sindacato che i giudici amministrativi possono esercitare: in altre parole, quali sono i limiti alla discrezionalità del Csm.
Il Consiglio di Stato fissa i paramentri: irragionevolezza, omissione o il travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione. Paradossalmente, a fornire la leva al Consiglio di Stato è stato lo stesso Csm, autolimitandosi con il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria: non un atto avente forza di legge ma una circolare interna del 2015 che fissa i parametri di nomina.
Proprio questo ha prodotto lo scontro a valle: tutti gli scontenti delle decisioni del Csm hanno così strumento per ricorrere contro il giudizio discrezionale dell’organo di governo autonomo. Negli ultimi anni, anche a fronte dello scandalo Palamara sulle nomine pilotate, proprio l’accoglimento di alcuni di questi ricorsi ha generato una ulteriore delegittimazione del Csm, considerato ostaggio di meccanismi correntizi.
Di fatto però il Consiglio di Stato, sentenza dopo sentenza, ha costruito una giurisprudenza che gli assegna precisi margini di sindacabilità su una prerogativa costituzionale del Csm, quella delle nomine, che i più intransigenti difensori dell’autonomia della magistratura considerano invece insindacabile.
La riforma
Nello scontro tra Consiglio di Stato e Csm si inserisce un nuovo giocatore che è la politica. Il ministero della Giustizia, infatti, presenterà a breve l’emendamento che completerà il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario. La massima attenzione ha riguardato la riforma del sistema elettorale del Csm, ma la riforma contiene anche altro: la codificazione dei criteri sulla base dei quali effettuare le nomine, raccogliendo le circolari del Csm.
Proprio questa codificazione – come è stato fatto notare in un acceso dibattito proprio nel plenum del Csm – produrrà un effetto: l’irrigidimento dei criteri, che non saranno più autoassegnati dal Csm nell’esercizio delle sue prerogative di discrezionalità e mutabili nel tempo con nuove circolari interne, ma fissati per legge. In questo modo, l’autonomia del Consiglio nella valutazione delle nomine sarà ridotta da una serie di parametri prefissati per decreto e a quel punto immutabili, se non attraverso un nuovo atto legislativo del parlamento.
Una scelta di questo tipo da parte del ministero risponde a una ragione: dal momento che la storia recente ha mostrato un metodo di nomina che rispondeva a parametri di affiliazione correntizia, fissare dei criteri rigidi fa parte della cura per mettere fine al correntismo. Il risultato, però, rischia di essere un altro: sottoporre nei fatti il futuro Consiglio al sindacato del giudice amministrativo, che a quel punto avrà non più solo circolari, ma atti di legge su cui basare il suo sindacato.
In questo modo, però, la politica fa una scelta di campo precisa in favore del Consiglio di Stato e riduce per via di legge ordinaria una prerogativa costituzionale del Csm: l’autonomia, l’indipendenza e la discrezionalità nelle scelte interne all’ordine giudiziario.
Così i magistrati ordinari saranno sottoposti, nei parametri di nomina, a una legge ordinaria; nel sindacato sulla nomina, invece, al giudizio dei magistrati amministrativi che non sono sottoposti al Csm. Difficile, a queste condizioni, che poi si possa continuare ad auspicare l’autoriforma di un Csm a cui viene messa la camicia di forza.
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