Il Quirinale starebbe valutando di non firmare il provvedimento o di firmarlo con riserva, accompagnandolo con una lettera di rilievi. Il testo normativo contrasta con la libera circolazione delle merci, principio fondamentale nell’Unione europea. La sua commercializzazione è peraltro già vietata
Si addensano nubi sul disegno di legge che vieta la cosiddetta carne coltivata, vale a dire ottenuta in laboratorio coltivando cellule staminali di animali. Specificamente, sarebbe proibito «vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare o distribuire per il consumo alimentare» e altro - di «alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati».
Pare che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, stia valutando di non firmare il provvedimento o di firmarlo con riserva, cioè accompagnandolo con una lettera contenente rilievi. Ne avrebbe buoni motivi. Si tratta di un testo che, oltre a essere attualmente inapplicabile, contrasta con principi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione europea, per cui l’Italia rischierebbe di incorrere in una procedura di infrazione.
Una normativa oggi inutile
La carne coltivata rientra tra i cosiddetti nuovi alimenti (novel food), vale a dire cibi per i quali non è dimostrabile un consumo “significativo” all’interno dell’Ue prima del maggio 1997 (regolamento Ue n. 2283/2015).
Tali alimenti possono essere commercializzati solo dopo un rigoroso vaglio in sede europea. Serve, infatti, l’autorizzazione della commissione Ue, a seguito dell’esame da parte dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) sotto il profilo dei rischi per la salute umana, tra gli altri.
Quanto detto rende palese che il divieto relativo a qualunque uso della carne coltivata oggi sia del tutto inutile: la commercializzazione è già vietata, ai sensi della citata disciplina Ue, non essendo mai stata autorizzata. In altre parole, non si può proibire ciò che è già proibito. Ma è proprio ciò che si vuole fare con questa legge, che quindi si traduce in uno spreco di tempo e risorse.
Il principio di precauzione
Per giustificare il provvedimento, non si può nemmeno affermare che il divieto di carne coltivata viene sancito preventivamente, cioè prima dell’autorizzazione dell’Ue, in base al principio di precauzione, richiamato nel testo. Tale principio giustifica limitazioni riguardanti, ad esempio, un certo alimento solo ove vi siano dati che attestano «la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una situazione d'incertezza sul piano scientifico» (regolamento CE n. 178/2002).
Non è il caso della carne coltivata. Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, infatti, non si forniscono prove di danni per la salute umana: ci si limita a dire che «non si è nelle condizioni, soprattutto scientifiche, di poter escludere che (…) non abbiano delle conseguenze negative». Inoltre, il principio di precauzione si applica solo per proteggere la salute pubblica o l'ambiente, e non per tutelare «interessi legati al patrimonio culturale», come il governo italiano afferma nella citata relazione.
Il rischio di procedura di infrazione
La disciplina europea (direttiva 2015/1535) prevede che, qualora uno Stato membro intenda introdurre leggi che potrebbero limitare la libera circolazione di prodotti (industriali, agricoli e della pesca), ne dia notifica alla commissione e agli altri stati membri (cosiddetta procedura TRIS).
La commissione deve valutare la compatibilità dei progetti legislativi con i principi del diritto dell'Unione europea e del mercato interno. Il governo aveva dapprima trasmesso la notifica TRIS alla commissione europea, ma poi l’ha ritirata con una motivazione abbastanza inconsistente. Forse perché si stava concretizzando l’ipotesi che il provvedimento fosse bocciato dall’Ue, e si è voluto evitare l’ostacolo.
Tuttavia, il governo non riuscirà a evitare che il divieto di importazione e vendita di carne coltivata sia comunque considerato illegittimo dall’Ue dopo la sua approvazione, poiché in contrasto con la libera circolazione delle merci, uno dei principi fondanti dell’Unione (art. 34 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, TFUE). Il diritto dell’Ue prevale su quello nazionale.
Ma nel testo di legge non si fa cenno a tale prevalenza, anzi si dà palese dimostrazione di volerla scientemente ignorare. Dunque, c’è il rischio di una procedura di infrazione. Va anche detto che, in caso di controversie, i tribunali nazionali potrebbero disapplicare il provvedimento, ove approvato, in ragione del contrasto con la disciplina europea.
Ora si può solo auspicare che il Quirinale dia un segnale forte, rimandando il testo al Parlamento, e non si limiti a una mera lettera di richiamo. È arrivato il momento che Mattarella metta qualche punto fermo.
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