Al largo di Livorno, una casa di detenzione di media sicurezza: tutti lavorano per far funzionare il microcosmo. I detenuti vivono fuori dalle celle: «Preferisco vedere mia madre due volte l’anno, ma qui all’aperto»
«Chieda a mia madre se preferisce vedermi qui due volte l’anno, oppure tutte le settimane in un carcere chiuso. Per me era un’angoscia tutte le volte che entrava». P. è il più loquace tra i detenuti di Gorgona, è stato ribattezzato “il sindacalista” perché è quello che spesso parla a nome di tutti. Ha l’accento piemontese e prima di arrivare qui ha girato molti penitenziari: «Ivrea, Torino, Alessandria, Asti», li elenca. Ora può incontrare la madre in un prato curato, sotto una pergola, e trascorrere con lei quattro ore di visita. Così, «sono tornato a una quasi normalità. Sono cresciuto in un paese di campagna e qui sento che ho ricominciato a vivere, stando all’aria aperta».
Questa «quasi normalità» – la sua e quella degli altri 82 detenuti di media sicurezza che scontano pene definitive tra i cinque e i 15 anni e anche un ergastolo – è garantita dal fatto che si trovano nell’ultima isola-carcere d’Europa. Gorgona, infatti, è uno scoglio di 2,2 chilometri quadrati, distante 18 miglia marittime dalla costa di Livorno, che diventa irraggiungibile da qualsiasi imbarcazione quando si alza il libeccio. Almeno un paio di volte l’anno l’isola rimane isolata anche per una decina di giorni, e chi vi risiede non può far altro che aspettare che si abbassi il vento e si calmi il mare, per sperare di rivedere la costa.
Arrivando a Gorgona a bordo della motonave “Superba”, che parte dal porto di Livorno tutti i giorni alle 8.45 e rientra alle 17, quel che appare è un ridente borgo di pescatori. Casette basse, coloratissime, che si inerpicano dal porticciolo su e su verso una serie di terrazzamenti. A colpire lo sguardo è un muro azzurro, in alto sopra il molo, con una scritta blu che recita l’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
«Prima le casette erano tutte grigie», racconta un agente della polizia penitenziaria in servizio, «poi il direttore del carcere ha deciso di dipingerle». A farlo sono stati i detenuti: Gorgona è l’unico carcere in Italia in cui tutti lavorano. Anche per questo la commissione carcere della Camera penale di Padova, con l’avvocata Annamaria Alborghetti, ha organizzato qui il convegno “I luoghi e gli spazi di detenzione”: una due giorni per capire il “modello Gorgona” e chiedersi se sia replicabile.
Passeggiando per le viuzze che conducono al cuore del piccolo borgo, dove si trova lo spaccio gestito dalla penitenziaria e da alcuni detenuti, si incrociano operai con in mano badili e picconi. Sono tutti detenuti e stanno rilastricando la salita che conduce alla chiesetta, dove officia messa un giovane prete polacco, anche lui in tenuta da lavoro mentre sistema il praticello accanto all’ingresso. «I detenuti gestiscono la funzionalità dell’isola», spiega il direttore, Giuseppe Renna, che ha la responsabilità anche delle carceri di Pisa e Livorno di cui Gorgona è sezione distaccata. Lui cerca di trascorrere due giorni a settimana in ognuno: «Quando vengo qui sto in paradiso, a Pisa vado in purgatorio e a Livorno entro all’inferno». La casa circondariale “Le Sughere” di Livorno, infatti, è considerata una delle più difficili d’Italia, per sovraffollamento e fatiscenza delle strutture.
L’isola del possibile
Arrivare a Gorgona non è facile, non solo a causa del braccio di mare che la separa dalla terraferma rendendola l’isola più distante dell’arcipelago Toscano. I detenuti arrivano prevalentemente in un modo: rispondendo a un interpello nazionale, esposto in tutte le carceri, che specifica le capacità professionali richieste. Nel gergo carcerario, è una sorta di un annuncio di lavoro: a Gorgona servono elettricisti per riparare l’unico generatore del carcere, muratori per ristrutturare gli edifici rovinati dall’usura e dalle intemperie, giardinieri per gli spazi verdi e poi fabbri, cuochi, idraulici. Chi arriva sull’isola per scontare la pena diventa un ingranaggio indispensabile nel funzionamento del microcosmo. Il detenuto fa domanda spiegando le ragioni per cui chiede il trasferimento, il lavoro che sa svolgere o che vorrebbe imparare e il suo fascicolo viene esaminato dal punto di vista del comportamento e della pena. In questo modo avviene una scrematura: la maggior parte dei detenuti di Gorgona è stata condannata per reati violenti contro la persona, vengono esclusi invece i sex offender e chi ha problemi di tossicodipendenza. Il sovraffollamento del carcere di Livorno, tuttavia, ha imposto l’arrivo anche di detenuti comuni, che spesso mal si adattano al regime detentivo tutto particolare dell’isola. «I detenuti qui trascorrono le giornate all’aperto, lavorano tutte le mattine, guadagnano uno stipendio e tornano in cella solo per dormire», spiega Marcello Bortolato, presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze. Sulla carta, quasi un paradiso rispetto a chi sconta la pena in celle affollate di tre metri quadrati. Ma «questo è possibile perché vivono nel massimo isolamento e con la minima turbativa dall’esterno».
In altri termini: il detenuto che viene alla Gorgona quasi non si sente ristretto, le regole sono poche anche se ferree e la bellezza dell’isola è ammaliante. Esiste una contropartita, però: essere tagliati fuori dalla società, con poche visite da parte degli affetti per la complessità del viaggio e la difficoltà di fare reinserimento lavorativo in terraferma. A Gorgona, infatti, non ci sono semi liberi, perché sarebbe troppo complicato gestire il rientro per la notte, quindi chi ottiene questo regime viene trasferito in altre carceri.
Di conseguenza, la prima ragione di chi chiede di essere trasferito a Gorgona è la possibilità di lavorare direttamente sull’isola e così aiutare la propria famiglia. Il pendio che sovrasta il borgo è coltivato a vite, piantate dall’azienda agricola fiorentina Frescobaldi, che produce vino pregiato e qui coltiva sia bacca bianca che bacca nera. Al momento sono impiegati tre detenuti, due dei quali erano contadini nell’astigiano e conoscono bene il mestiere. Guadagnano mille euro al mese, che spediscono a casa. Altri invece lavorano negli orti, per garantire frutta e verdura fresche, o nel campo di ulivi dove dal prossimo anno si produrrà l’olio. Tutti ricevono un compenso. Si tratta di detenuti «articolo 21» o «articolo 20», spiega un agente della penitenziaria: significa che sono assegnati al lavoro esterno senza l’obbligo del controllo a vista, secondo due diversi regimi previsti dall’ordinamento penitenziario. «Grazie alla collaborazione di tutti, quest’isola è diventata il luogo in cui si è potuta ridurre la lontananza tra i principi costituzionali e la realtà detentiva», ha commentato Valeria Marino, già magistrato di sorveglianza a Livorno.
Così Gorgona è diventata negli anni una meta privilegiata, di cui si viene a conoscenza «con il passaparola in carcere», dice G., che prima della condanna lavorava in un maneggio e ama occuparsi del bestiame. Lui è il più amareggiato: fino al 2020 sull’isola si allevavano capre, maiali e mucche, con cui produrre latte e formaggi e destinati anche alla macellazione. Poi la Lav – la rete anti vivisezione – ha chiesto e ottenuto che questo si interrompesse perché considerato diseducativo per chi si è macchiato di fatti di sangue. Così ora gli animali vivono quasi allo stato brado, in attesa di venire trasferiti sulla terraferma. La carne, il latte e il formaggio invece devono essere importati via nave. Quando G. se ne lamenta, anche i poliziotti della penitenziaria si guardano e annuiscono. Del resto, quella che si è creata a Gorgona è una comunità a tutti gli effetti, seppur sui generis. Gli agenti vivono nelle casette colorate, i detenuti in celle singole con bagno in due edifici al limitare del borgo, che vengono aperte alle 7 del mattino e chiuse alle 9 di sera. Ma quando salta l’elettricità, l’acqua calda non arriva o la nave non può attraccare per il mare grosso, il disagio colpisce tutti.
Un microcosmo
Anche gli agenti scelgono Gorgona per ragioni simili a quelle dei detenuti: un conto è fare guardiania in un carcere sovraffollato e respirare la tensione tra le celle chiuse, un altro è farlo in quello che è a tutti gli effetti un penitenziario senza sbarre. L’isola, poi, è considerata meta disagiata, quindi un paio d’anni qui garantiscono una crescita rapida di anzianità di servizio. Anche qui come nel resto d’Italia, tuttavia, si sconta la carenza di organico, con 25 unità al posto delle 33 minime previste. Eppure, per la straordinarietà del contesto isolano, «Gorgona è forse l’unico carcere in cui è davvero applicata la riforma del 2018, che prevede che in carcere ci siano spazi comuni per una gestione cooperativa della vita detentiva», spiega l’ex garante dei detenuti, Mauro Palma.
L’isola non è del tutto inaccessibile ai civili: alcuni gruppi di trekking organizzano uscite in giornata per visitare un luogo rimasto incontaminato grazie alla presenza del carcere. Alcune case, poi, sono ancora di proprietà dei discendenti dei pescatori e alcune famiglie trascorrono le vacanze sull’isola, che conta anche una residente fissa speciale: la signora Luisa, di 96 anni. Vive in una villetta affacciata sul porticciolo e due detenuti si alternano nell’aiutarla con i lavori domestici e le tengono compagnia. Nella mostra fotografica “Ri-scatto” sul lavoro a Gorgona, realizzata dal poliziotto penitenziario Pierangelo Campolattano, Luisa è ritratta seduta su un muretto, con il bastone in mano e un basco chiaro in testa, mentre conversa con un detenuto, un omone imponente con la pelle abbronzata dal sole.
Lasciando l’isola a bordo della “Superba”, si affievolisce la sensazione straniante trasmessa da un luogo la cui bellezza stride con le ragioni che hanno costretto lì i suoi abitanti. Resta invece la certezza che ciò che è possibile a Gorgona è ancora drammaticamente irrealizzabile sulla terraferma, dove il carcere rimane un luogo chiuso e ai margini, in cui la rieducazione è ancora una parola che riguarda troppo pochi.
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