Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato nel 2019 e che entrerà in vigore nella sua totalità dal giugno 2021, ha l’obiettivo di fornire uno strumento rapido ed efficace di risoluzione delle crisi. Il nuovo procedimento «unitario», che invece è già entrato in vigore, dovrebbe avere due caratteristiche: celerità, grazie alla priorità di trattazione, e unitarietà in un’unica sede, il tribunale dell’impresa.

Tuttavia, l’intento di semplificare le procedure rischia di scontrarsi contro una macroscopica lacuna nel testo del decreto. L’articolo incriminato è il 27, che disciplina quale tribunale è competente nei procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, relative alle imprese di dimensioni tali da poter accedere all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (una procedura concorsuale più flessibile, che dovrebbe conciliare le pretese dei creditori e il salvataggio dei lavoratori e del complesso produttivo dell’azienda).

L’articolo stabilisce che è competente il tribunale «sede delle sezioni specializzate in materia di imprese», che è «individuato a norma dell’articolo 4 del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, avuto riguardo al luogo in cui il debitore ha il centro degli interessi principali»; in altre parole: per le imprese, di importanza maggiore, che astrattamente sono assoggettabili all’amministrazione straordinaria sarebbe competente no il tribunale fallimentare del capoluogo di provincia dove è la sede dell’impresa, bensì il tribunale fallimentare del capoluogo di regione, ritenuto più specializzato e pronto a fornire soluzioni adeguate.

La norma, però, presenta una criticità non da poco: parla di imprese “in” amministrazione straordinaria (quindi come se dovessero essere già sottoposte al meccanismo dell’amministrazione straordinaria) e non di imprese che astrattamente vi possano accedere, cioè che abbiano i requisiti dimensionali per accedervi.

Il risultato è che, se si interpreta in modo letterale la norma, emerge un problema di quale tribunale sia competente e si innesca un cortocircuito. Esattamente questo è successo all’impresa Ferrarini di Reggio Emilia.

Il caso Ferrarini

La Ferrarini è un’azienda di grandi dimensioni nel settore delle carni, ha tutti i requisiti per essere assoggettabile alla procedura di amministrazione straordinaria e dunque, dopo una pronuncia della corte d’appello di Bologna dell’ottobre scorso, risultava chiaro che per il suo concordato non fosse più competente il tribunale di fallimentare di Reggio Emilia, bensì quello di Bologna, essendo stato ritenuto applicabile l’articolo 27 sulla base di precedenti giudizi sia a Brescia che a Bergamo.

Anche la stessa corte d’appello di Bologna, nell’ottobre scorso, ha ritenuto che l’articolo 27 debba «intendersi applicabile alle imprese assoggettabili alla procedura di amministrazione straordinaria e non a quelle già in amministrazione straordinaria» e quindi che la competenza vada attribuita al tribunale fallimentare sede della sezione specializzata in materia di imprese.

Il tribunale fallimentare di Bologna, tuttavia, con una ordinanza di fine novembre non accetta questa interpretazione della norma e ritiene che la competenza spetti a Reggio Emilia e per questo solleva d’ufficio la questione di competenza davanti alla Corte di cassazione.

L’esito di questa decisione, la prima in questo campo, dunque, risolverà in via giurisprudenziale un potenziale conflitto prodotto dalla scrittura della legge. Con un rischio, però: in attesa della sentenza ci sarà incertezza sul tribunale competente in tutti casi analoghi, con l’incognita per le grandi aziende italiane in crisi su quale tribunale rivolgersi per il concordato.

Tradotto in concreto: se la corte confermerà che la competenza nel caso delle grandi imprese in crisi è dei tribunali fallimentari presso le corti d’appello, saranno nulle e dovranno ricominciare tutte le procedure incardinate presso gli altri tribunali fallimentari. La speranza, dunque, è che la Cassazione si esprima in tempi rapidi oppure che intervenga il legislatore per sanare i dubbi.

Anche perché, in periodo Covid in cui le imprese italiane sono particolarmente esposte alla crisi, una lunga attesa significa che le società in attesa di ammissione al concordato si ritrovino a proseguire in un limbo. Un limbo, per altro, in cui le imprese avranno i conti congelati e non potranno nemmeno accedere ai decreti.

Liquidità che dovrebbero salvaguardare proprio le imprese in crisi. «Al netto del caso concreto, si tratta di un enorme problema di politica giudiziaria: la norma scritta in modo poco chiaro rischia di rendere nulla almeno una parte dei concordati che riguardano grandi aziende del paese», spiega l’avvocato Ettore Rocchi, che segue la società Bonterre, che ha formulato un’offerta concorrente nel concordato Ferrarini spa.

Accanto a questo, si sommano i problemi quotidiani della giustizia. L’interpretazione della norma che prevede che i concordati per le grandi imprese vengano decisi dai tribunali fallimentari dei distretti di corte d’appello si traduce in una nuova mole di lavoro sulle spalle della sezione specializzata di 26 tribunali in Italia.

Nel caso dell’Emilia Romagna, l’unico distretto di corte d’appello è quello di Bologna, la sezione fallimentare del capoluogo si troverebbe inondata di tutti i concordati provenienti dalle provincie limitrofe. I dati ministeriali di fine 2019 sui fallimenti certificano un arretrato di 83mila pratiche. A cui, se non verrà colmata la lacuna di competenza, rischiano di sommarsi anche procedimenti nulli da ricominciare da zero.

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