- Marco Follini ha scritto che il populismo in Italia è un fenomeno che scende dall’alto, più che salire dal basso. È il rifugio in cui si nasconde un’élite che ha perso il bandolo della sua matassa. L’origine risale agli Settanta.
- Gianni Cuperlo gli ha risposto che, invece, gli anni Settanta sono stati quelli delle grandi riforme che hanno riscritto la costituzione materiale del paese e i rapporti sociali in senso progressista.
- Secondo Pier Giorgio Ardeni, è stata la mancata svolta progressista negli anni Settanta a portare al declino. E, quindi, al populismo.
Negli anni Settanta le radici del populismo, come ha scritto Marco Follini su Domani? Che la conflittualità sociale e la distanza del “palazzo” di allora siano all’origine del populismo odierno è una lettura che non tiene conto dei molti mutamenti intervenuti da allora, perché il conflitto non è solo il frutto della scarsa attenzione della politica, ma di storture profonde nella struttura sociale.
Già dalla fine degli anni Sessanta, la richiesta operaia di più alti livelli salariali e migliori condizioni di lavoro si fa più pressante.
E la protesta, dall’autunno “caldo” in avanti, si estende alla società tutta, dagli studenti ai ceti medi, reclamando più servizi pubblici e sociali – dai trasporti alla sanità alla scuola all’edilizia –, una “domanda di equità” sulla quale lo Stato era rimasto indietro. Il conflitto di classe – o, se vogliamo, la tensione sociale – esplode poi con la crisi che dal 1973 investe il capitalismo globale, con l’aumento della disoccupazione (soprattutto giovanile) e il venire alla luce delle situazioni di proletarizzazione e marginalizzazione di vasti strati sociali.
Lo Stato e il governo rispondono con riforme fiscali, assistenzialismo, sussidi e protezione sociale, per ammortizzare lo scontro sociale senza andare ad incidere sui meccanismi di uno sviluppo che era stato distorto. E la classe politica tutta – ovvero i partiti – si fa portatrice delle istanze di modernizzazione che vanno maturando nel corpo sociale, portando a quelle riforme di cui parla Gianni Cuperlo.
L’occasione mancata
L’occasione storica che gli anni Settanta presentarono – e che si comprese solo dopo – fu quella di dare all’Italia una svolta genuinamente progressista. Una svolta che non ci fu, perché avrebbe voluto dire agire anche sul modello di sviluppo, sull’industria grande e piccola, sul Mezzogiorno, guardando al nuovo “post-industriale” che andava emergendo, alle nuove stratificazioni sociali.
Le battaglie della fine degli anni Settanta e poi degli Ottanta, invece, si concentrarono su come porre un freno all’inflazione, mettendo all’angolo sindacati e Pci, come se all’origine vi fosse solo un problema di costo del lavoro, senza porre in discussione la funzione assistenzialista e generatrice d’inflazione della spesa pubblica (e del debito). Mentre andava incedendo, nel mondo come poi anche in Italia, la “controffensiva neo-liberista” (di cui Federico Caffè, già in quegli anni, annunciava l’avanzata).
Dopo l’89 e, soprattutto, dopo l’annus horribilis del 1992, l’attenzione si riversa sull’obiettivo dell’Europa (sancito dall’adesione al trattato di Maastricht), mettendo da parte ancora una volta tutti i problemi strutturali dell’economia, della società e della politica.
Il crollo dei partiti della “prima repubblica” dà luogo a un nuovo amalgama politico centrista conservatore che non ha più le stesse basi sociali, mentre a sinistra, al venire meno della base operaia – la cui occupazione nell’industria continua a diminuire – non si riesce a raccogliere consensi tra i ceti ora “proletarizzati” e popolari, guardando invece ai ceti medi.
Sono le istanze di vaste fasce, interstiziali all’inizio, via via più estese nel tempo, che non trovano più rappresentanza nella politica.
La partecipazione – venendo meno anche il collante ideologico – comincia a declinare e, dopo il 1987, l’affluenza alle elezioni calerà ad ogni turno.
Dai conservatori ai populisti
Dopo gli anni Ottanta, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito ritornano a salire e con la globalizzazione il nostro modello economico viene definitivamente messo alle corde, accentuando antichi dualismi, tra aree e ceti, lasciando prevalere la difesa più che il cambiamento, la “flessibilità” neoliberista più che la modernizzazione economica e tecnologica.
È una società sempre meno “progressista”, sempre più “conservatrice” che sopravvive. È in questo contesto che emergono i nuovi populismi, che guardano alla difesa dell’ethnos quanto del demos, nella perdita di consensi dei partiti nella loro base più ampia che ha portato alla progressiva auto-esclusione di fasce consistenti della società.
È la crisi della rappresentanza di quei partiti che lascia un vuoto sul quale crescono gli inconcludenti populismi odierni. Mancanza di prospettive, di progetto, hanno fatto il deserto sul quale il populismo attecchisce anche se privo di radici, perché carente della linfa di un’altra idea di società che, però, né i progressisti né i moderati oggi paiono avere.
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