Nella seconda metà del mese di agosto 1982, il gen. Dalla Chiesa, parlando con il figlio Fernando, gli indicò la corrente andreottiana come quella che esercitava una maggiore pressione tra i gruppi politici che lo osteggiavano, spiegò le ragioni di tale opposizione con la frase: “Ci sono dentro fino al collo”, ed aggiunse che il sen. Andreotti “faceva il doppio gioco”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro–tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado che ha assolto l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. La sentenza di secondo grado, confermata in Cassazione, ha accertato invece che – fino alla primavera del 1980 – Andreotti aveva avuto rapporti con i boss Cosa Nostra
Oltre a quanto si è già esposto in merito all’incontro con il Ministro Rognoni, deve altresì osservarsi che il gen. Dalla Chiesa, all’atto della sua investitura a Prefetto di Palermo, ebbe un colloquio con il Presidente del Consiglio dei Ministri sen. Giovanni Spadolini; in questa occasione, fece riferimento al tema delle complicità con la mafia, espresse la sua preoccupazione per “le infiltrazioni locali di ordine politico”, e ricevette dal suo interlocutore la più ampia assicurazione che le “famiglie legate alla mafia nel mondo politico” sarebbero state sconfessate dal Governo e non gli avrebbero potuto creare difficoltà. In data 2 aprile 1982 il gen. Dalla Chiesa scrisse al sen. Spadolini la seguente lettera (acquisita al fascicolo per il dibattimento in data 20 ottobre 1998):
Roma 2/4/1982
Gentilissimo professore,
faccio seguito ad un nostro recente colloquio e se pur mi spiaccia sottrarLe tempo, mi corre l'obbligo - a titolo di collaborazione e prima che il tutto venga travolto dai fatti – di sottolineare alla Sua cortese attenzione che:
- la eventuale nomina a Prefetto, benché la designazione non possa che onorare, non potrebbe restare da sola a convincermi di lasciare l'attuale carica;
- la eventuale nomina a Prefetto di Palermo, non può e non deve avere come "implicita" la lotta alla mafia, giacché:
• si darebbe la sensazione di non sapere che cosa sia (e cosa si intenda) l'espressione "mafia";
• si darebbe la certezza che non è nelle più serie intenzioni la dichiarata volontà di contenere e combattere il fenomeno in tutte le sue molteplici manifestazioni ("delinquenza organizzata" è troppo poco!);
• si dimostrerebbe che i "messaggi" già fatti pervenire a qualche organo di stampa da parte della "famiglia politica" più inquinata del luogo hanno fatto presa là dove si voleva.
Lungi dal voler stimolare leggi o poteri "eccezionali", è necessario ed onesto che chi si è dedicato alla lotta di un "fenomeno" di tali dimensioni, non solo abbia il conforto di una stampa non sempre autorizzata o credibile e talvolta estremamente sensibile a mutamenti di rotta, ma goda di un appoggio e di un ossigeno "dichiarato" e "codificato":
• "dichiarato" perché la sua immagine in terra di "prestigio" si presenti con uno "smalto" idoneo a competere con detto “prestigio”;
• "codificato" giacché, nel tempo, l'esperienza (una macerata esperienza) vuole che ogni promessa si dimentichi, che ogni garanzia ("si farà", "si provvederà", ecc.) si logori e tutto venga soffocato e compresso non appena si andranno a toccare determinati interessi.
Poiché è certo che la volontà dell'on. Presidente non è condizionata da valutazioni men che trasparenti, ma è altrettanto certo che personalmente sono destinato a subire operazioni di sottile o brutale resistenza locale quando non di rigetto da parte dei famosi "palazzi" e poichè, da persona responsabile, non intendo in alcun modo deludere le aspettative del Sig. Ministro dell'Interno e dello stesso Governo presieduto da un esponente che ammiro e che voglio servire fino in fondo, vorrei pregarLa di spendere – in questa importantissima fase non solo della mia vita di "fedele allo Stato" - il contributo più qualificato e convinto, perché l'iniziativa non abbia a togliere a questa nuova prestazione né la componente di un'adesione serena, né il crisma del sano entusiasmo di sempre: quello più responsabile. Con ogni e più viva considerazione.
Suo Gen. Dalla Chiesa
Il sen. Spadolini, escusso quale teste nel c.d. maxiprocesso all’udienza dell'11 novembre 1986 (il cui verbale è stato acquisito al fascicolo per il dibattimento), rese le seguenti dichiarazioni:
«Rispondo subito che l'argomento delle corresponsabilità o complicità con la mafia fu toccato esplicitamente dal Generale Dalla Chiesa nel colloquio con me a Palazzo Chigi nel momento dell'investitura, ed io dissi al Generale Dalla Chiesa che egli operasse in tutte le direzioni senza nessun riguardo presso nessuno.
Quindi le disposizioni che il Presidente del Consiglio dette furono di assoluta fermezza in qualunque direzione senza eccezioni. (...) i sospetti che Dalla Chiesa aveva in materia di famiglie politiche erano diversi complessi come tali lui li formulò (...). E io ho detto in libertà assoluta di colpire in tutte le direzioni (...) Dalla Chiesa conosceva la mafia, c'era già stato, sapeva tutte le difficoltà tra (rectius della: n.d.e.) lotta in loco e voleva una garanzia politica rispetto agli altri palazzi ed è chiaro che se la chiedeva a Palazzo Chigi, sapeva bene che a Palazzo Chigi poteva chiederla e che si trattava di altri Palazzi. (…) questo che solleva il Generale Dalla Chiesa in questa lettera era un’azione di stampa (…) fatta verso la fine di marzo, (...) di sabotaggio della nomina in qualunque forma (...). Ed egli sollevava a me, quando era ancora incerto il giorno 2 se accettare, la questione di una copertura (...) politica. (...) Egli voleva un mandato politico del Governo e del Presidente del Consiglio per combattere la mafia contro ogni eventuale complicità locale, e questa io l’ho data nel colloquio che seguì a questa lettera e in cui gli dissi lei non guardi in faccia a nessuno e se ha problemi politici, cioè resistenze di partiti, si rivolga a me (...). Poi, c’era il problema (...) di poteri. Ma, i poteri che egli chiedeva, rispetto alle prefetture degli altri paesi d’Italia etc., non erano strettamente legati a questa faccenda, erano legati al fatto che egli voleva dare a questa Prefettura di Palermo quel carattere eccezionale dei reparti anti-terrorismo, in cui si inseriva la lotta contro tutte le forme di complicità, e quindi anche contro questa certamente. Ma non è che lui abbia chiesto i poteri speciali per combattere le complicità delle famiglie; (...) voleva dei poteri speciali per svolgere la sua funzione (...) in questo senso, nazionale (...). Cioè, sapendo che la mafia ha sviluppi a Milano, etc., voleva che le prefetture potessero dargli tutti gli strumenti. Poi, si voleva garantire con me, politicamente, col Ministro dell'Interno, e la garanzia l'ha avuta assoluta, perchè non c'è stato che ... resistenze, vecchie famiglie legate alla mafia nel mondo politico dei vari partiti, potessero creare a lui difficoltà come l'avevan già creato sulla nomina. (...) si tratta di (...) non confondere in modo meccanico le due cose, perché (...) allora i poteri sarebbero stati presi soltanto per combattere delle infiltrazioni locali di ordine politico, delle quali egli era molto preoccupato, questo è certo, e sulle quali io credetti di rassicurarlo dicendogli che il Governo sconfessava ogni famiglia politica, quale che fosse. (...) dell’argomento delle possibili complicità di forze politiche con la mafia, il gen. Dalla Chiesa mi parlò nell’incontro di investitura e (...) non mi fece nomi specifici di una famiglia, o di un’altra, mi parlò di preoccupazioni che aveva, (...). Certamente aveva, penso, dei sospetti maggiori su punti o su altri, ma egli mi parlò di vari partiti, anzi di una specie di poli-partito della mafia, non mi parlò mai di un partito politico in modo specifico ed esclusivo».
Dall’esame degli elementi di convincimento acquisiti si desume che, parlando nella sua lettera della "famiglia politica" più inquinata del luogo (la quale aveva già fatto pervenire "messaggi" a qualche organo di stampa), il gen. Dalla Chiesa intendeva riferirsi alla corrente Andreottiana in Sicilia.
Al riguardo, occorre in primo luogo tenere presente che il gen. Dalla Chiesa aveva interpretato come un avvertimento ed una minaccia l’intervista rilasciata in data 30 marzo 1982 dal sindaco di Palermo avv. Nello Martellucci (appartenente alla corrente Andreottiana), il quale aveva rilevato che lo Stato si impegnava nella lotta alla criminalità organizzata ed, al riguardo, aveva fatto riferimento ai "cadaveri eccellenti". Il prof. Fernando Dalla Chiesa, escusso quale teste nel c.d. maxiprocesso, all’udienza del 23 luglio 1986 (il cui verbale è stato acquisito al fascicolo del presente dibattimento) rese le seguenti dichiarazioni con riferimento all’intervista rilasciata dal sindaco Martellucci: «Dunque, avvenne nel mese di aprile. Ci incontrammo a Roma e mio padre mi disse che... mi fece vedere il testo dell'intervista che era datata 30 marzo e mi disse: vedi, questo è un avvertimento. La frase, come ricorderà, si riferiva al fatto che lo Stato fa il suo dovere in Sicilia e che questo è comprovato dal numero di cadaveri eccellenti che si erano susseguiti negli anni fino all'82. Una traccia oggettiva di questo convincimento di mio padre credo che si possa ritrovare nella... si ritrova nella lettera al Presidente del Consiglio che è del 2 aprile, che è di due giorni da quell'intervista, in cui mio padre fa esplicitamente riferimento ai messaggi che sono già stati fatti pervenire sulla stampa dalla famiglia politica più inquinata del luogo. (...) Nel mese di agosto mio padre, nei primi giorni del nostro soggiorno a Prata, mi ricordò un episodio che lo aveva visto contrapposto al Sindaco Martellucci e a cui lui aveva attribuito un grande interesse. Si trattava formalmente di una questione diplomatica, cioè di chi dovesse essere il primo fra il Prefetto o il Sindaco ad andare a trovare l'altra autorità. Mio padre riteneva che secondo il protocollo dovesse essere il Sindaco ad accogliere, ad andare ad incontrare il nuovo Prefetto, mi disse anche che avrebbe, per questioni di convenienza ed anche per questioni di apertura verso la città, potuto scegliere lui di andare a trovare il Sindaco e che però, essendoci quel precedente, cioè quel messaggio che gli era stato inviato secondo lui attraverso la stampa, il venir meno ad un protocollo avrebbe potuto significare recepire quel messaggio e attraverso un atto, un comportamento, dare testimonianza che lo si era recepito passivamente, cioè che come prefetto non sarebbe andato incontro... non sarebbe andato contro le aspettative dell'altra autorità, cioè del Sindaco.
Mi disse anche che aveva avuto pressioni per essere lui a compiere questa mossa dai suoi superiori, di avere resistito proprio ponendo questo ragionamento, cioè che c'era il precedente del messaggio inviato attraverso la stampa... che aveva fatto pervenire al sindaco indirettamente altre proposte come quella di incontrare lui con due Assessori, in rappresentanza cioè della municipalità e non in quanto Sindaco o Avvocato Martellucci, che per le pressioni ricevute dovette adeguarsi a compiere lui questo gesto. Il commento che mi fece, raccontandomi questo episodio a Prata, fu testualmente: "in questo paese una tessera di partito conta più dello stato” ».
Del tutto analogo è il tenore delle dichiarazioni rese, sull’argomento, da un’altra figlia del gen. Dalla Chiesa, Maria Simona, nell’esame testimoniale cui essa venne sottoposta in data 9 marzo 1983 dal Giudice Istruttore dott. Falcone nell’ambito del c.d. maxiprocesso:
«Desidero aggiungere che, per ben due volte, mio padre, che in un primo tempo aveva cercato di incontrarsi col Consiglio Comunale, aveva ricevuto un netto rifiuto dal Sindaco Martellucci, il quale aveva risposto che egli rappresentava da solo la municipalità; pertanto, aveva cercato di ripiegare su una soluzione di compromesso, richiedendo di incontrarsi con la Giunta Comunale. Anche tale sua offerta fu rifiutata e fu sollecitato dal Ministero degli Interni ad incontrarsi col Sindaco esclusivamente. Ciò mi è sembrato molto grave, poichè in precedenza Martellucci aveva rilasciato alla stampa un'intervista in cui aveva detto, in sostanza, che lo Stato in Sicilia aveva adempiuto al suo dovere come era dimostrato dai numerosi cadaveri eccellenti; mio padre aveva interpretato tale intervista come una larvata minaccia nei suoi confronti e, quando gli fu imposto, nonostante che ne avesse informato gli organi ministeriali, di incontrarsi con Martellucci da solo, egli commentò il fatto dicendo che "la tessera di partito contava più dello Stato"».
Il gen. Dalla Chiesa, in data 16 maggio 1982, comunicò direttamente al sindaco di Palermo il proprio rincrescimento per il contenuto dell’intervista da lui rilasciata. Infatti l’avv. Martellucci, nella deposizione testimoniale resa il 30 luglio 1986 davanti alla Corte di Assise di Palermo nell’ambito del c.d. maxiprocesso, riferì quanto segue: «quando il Gen. Dalla Chiesa ebbe a venire a Palermo, esattamente il 16 di maggio del 1982, trovandoci assieme allo stadio Onorato, in occasione del giuramento delle reclute, egli ebbe a dirmi: "però, sa, Sindaco, lei avrebbe scritto qualche cosa che mi è dispiaciuto” - e aggiunse anche: “lei e l'onorevole Nicoletti avete scritto qualche cosa che mi è dispiaciuto"». Nella stessa deposizione il Martellucci, peraltro, escluse di avere voluto lanciare un messaggio con la suddetta intervista e specificò di appartenere alla corrente Andreottiana.
Quale che fosse l’intento che animava il sindaco Martellucci nel rilasciare l’intervista, non vi è dubbio che quest’ultima fu percepita dal gen. Dalla Chiesa come un minaccioso avvertimento. Deve pertanto ritenersi che ad essa si riferisse il gen. Dalla Chiesa nel menzionare, nella lettera inviata due giorni dopo al sen. Spadolini, i “messaggi” fatti pervenire a qualche organo di stampa dalla "famiglia politica" più inquinata del luogo.
Nella stessa lettera, il gen. Dalla Chiesa aggiunse di essere destinato a subire operazioni di sottile o brutale resistenza locale quando non di rigetto da parte dei famosi "palazzi". Con quest’ultima espressione, egli intendeva indicare i rappresentanti delle istituzioni locali che avrebbero frapposto ostacoli alla sua azione.
In proposito, deve rilevarsi che in quel periodo le più alte cariche del Comune di Palermo e della Regione Siciliana erano ricoperte da due esponenti della corrente Andreottiana: rispettivamente, il sindaco Martellucci ed il Presidente della Regione D’Acquisto.
Va inoltre osservato che, nella seconda metà del mese di agosto 1982, il gen. Dalla Chiesa, parlando con il figlio Fernando, gli indicò la corrente Andreottiana come quella che esercitava una maggiore pressione tra i gruppi politici che lo osteggiavano, spiegò le ragioni di tale opposizione con la frase: “ci sono dentro fino al collo”, ed aggiunse che il sen. Andreotti “faceva il doppio gioco”.
Le dichiarazioni rese, sull’argomento, dal teste on. Fernando Dalla Chiesa all’udienza del 14 gennaio 1998 sono di seguito riportate:
Dalla Chiesa Fernando: (...) E poi in agosto invece, quando gli chiesi ragione, stavamo facendo le vacanze insieme, delle opposizioni, delle ostilità che aveva nel mondo politico, tra i gruppi che lo stavano osteggiando mi indicò la corrente Andreottiana come quella che premeva di più, mi disse "ci sono dentro fino al collo". In questo caso fece riferimento alla corrente, non personalmente al senatore Andreotti.
Pubblico ministero: Siamo agosto 1982?
Dalla Chiesa Fernando: Meta' agosto, oltre metà agosto dell'82.
Pubblico ministero: L'intervista a Bocca c'era stata?
Dalla Chiesa Fernando: C'era già stata, si.
Pubblico ministero: Suo padre le parlò mai di un doppio gioco?
Dalla Chiesa Fernando: Si, ma in modo molto fuggevole nell'ambito della stessa discussione di agosto, cioè fa il doppio gioco e basta.
Pubblico ministero: Chi faceva il doppio gioco?
Dalla Chiesa Fernando: Il senatore Andreotti. (...) Però il... si fermò lì non diede alcun giudizio, non andò oltre, ecco.
Esaminato come testimone in data 9 marzo 1983 dal giudice istruttore dott. Falcone, Fernando Dalla Chiesa aveva dichiarato: «mio padre (...) mi espresse il suo convincimento che gli esponenti locali della D.C. facessero pressioni affinchè non gli venissero concessi quei poteri indispensabili per la lotta alla mafia. Mi disse, in particolare, che fieri oppositori alla concessione di tali poteri erano gli Andreottiani, i fanfaniani e parte della sinistra D.C.. Soggiunse che tale opposizione era dovuta al fatto che “vi erano dentro fino al collo”, ma non ricordo se si riferisse a tutte le predette correnti della D.C. o solo ad alcune di esse. Fra gli esponenti politici che, ad avviso di mio padre, erano maggiormente compromessi con la mafia, egli mi fece il nome di Vito Ciancimino e di Salvo Lima; del resto, tale suo convincimento egli lo aveva già espresso alla Commissione Antimafia. Mi disse che, della sinistra D.C., il più freddo nei suoi confronti era il Ministro Marcora».
Nella deposizione resa all’udienza dibattimentale del 23 luglio 1986 nel c.d. maxiprocesso, lo stesso teste riferì nei seguenti termini il contenuto del colloquio da lui avuto, intorno al 22-24 agosto 1982, con il padre: «mi disse che l'osteggiavano soprattutto nella D.C. I fanfaniani e gli Andreottiani e una parte della sinistra. Quando gli chiesi perché, e nel verbale è messo "perché ci sono dentro fino al collo” e non ricordo a quale dei tre gruppi egli attribuisse questa frase, ecco vorrei precisare che "ci sono dentro fino al collo" questa frase si riferisce alla corrente Andreottiana che mio padre mi parlò invece con riferimento ai fanfaniani, dei loro rapporti pregressi con Gioia e con riferimento alla sinistra mi fece come esempio di contrarietà che aveva incontrato e come ricordo nel verbale, il nome dell'allora Ministro Marcora».
Fernando Dalla Chiesa aggiunse: «Faccio riferimento alla frase su cui ho reso prima testimonianza, quando mio padre mi dice: gli Andreottiani ci sono dentro fino al collo”; fino al collo in che cosa se non nella mafia? (...) Comunque mio padre mi indica tre gruppi, (…) fanfaniani, Andreottiani e una parte della sinistra».
Le precisazioni fornite dal predetto teste in sede dibattimentale dimostrano, quindi, che il gen. Dalla Chiesa era convinto che la corrente Andreottiana in Sicilia fosse profondamente compromessa con la mafia.
Poiché – come si è visto - la corrente Andreottiana siciliana esercitava una forte influenza anche su altri partiti politici, è perfettamente comprensibile che il gen. Dalla Chiesa, nel suo colloquio con il sen. Spadolini, abbia fatto riferimento ad “una specie di poli-partito della mafia”, proprio per indicare la complessità e la gravità del fenomeno.
Le preoccupazioni del gen. Dalla Chiesa erano, comunque, rivolte essenzialmente alle collusioni esistenti in alcuni settori della Democrazia Cristiana. Egli, infatti, lo stesso giorno in cui assunse l’incarico di Prefetto di Palermo, annotò nel proprio diario (alla pagina relativa al 30 aprile) che in questa città la Democrazia Cristiana viveva “con l'espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che di potere politico”, affermando quanto segue:
Purtroppo, tesoro mio, come spesso è accaduto, ogni cosa è saltata, le circostanze mi hanno travolto ed il tuo Carlo, dalla pioggerellina che cadeva su Pastrengo è stato catapultato d'improvviso dapprima a Roma presso il Presidente del Consiglio e quindi a Palermo per assumervi nello stesso pomeriggio l'incarico di Prefetto. Ti rendi conto, Dora mia, cosa è accaduto in me! Dentro di me e quali reazioni ne sono scaturite in un'atmosfera surriscaldata da un evento gravissimo: l'uccisione, in piena Palermo, del Segretario Regionale del P.C.I., Pio La Torre? L'Italia è stata scossa dall'episodio specie alla vigilia del Congresso di una D.C. che su Palermo vive con l'espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che di potere politico. Ed io, che sono certamente il depositario più informato di tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo e, perchè no, anche pericoloso. Promesse, garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano. La verità è che in poche ore (5 - 6) sono stato catapultato da una cerimonia a me cara, che avrebbe dovuto costituire un sigillo alla mia lunga carriera nell'Arma, ad un ambiente infido, ricco di un mistero e di una lotta che possono anche esaltarmi, ma senza nessuno intorno, e senza l'aiuto di una persona amica, senza il conforto di avere alle spalle una famiglia come era già stato all'epoca della lotta al terrorismo, quando con me era tutta l'Arma. Mi sono trovato d'un tratto in ... casa d'altri ed in un ambiente che da un lato attende dal tuo Carlo i miracoli e dall'altro che va maledicendo la mia destinazione ed il mio arrivo. Mi sono trovato cioè al centro di una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l'ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia ed una politica mafiosa, ma all'uso ed allo sfruttamento del mio nome per tacitare l'irritazione dei partiti; che poi la mia opera possa divenire utile, tutto è lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi, pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente
deriveranno ed anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare. Sì, tesoro mio, questa volta è una valutazione realistica e non derivante da timori assurdi.
Ricordi quando ci raggiunse in Prata la notizia dell'uccisione del T. Col. Russo! (…) Oggi non sono certo colto nè da panico, nè da terrore, come già si sono fatti cogliere Tateo e Panero sui quali davvero contavo e non solo ai fini di "spalle coperte". Ma sono perfettamente consapevole che sarebbe suicidio il mio qualora non affrontassi il nuovo compito non tanto con scorta e staffetta ma con l'intelligenza del caso e con un po' di... fantasia. Così come sono tuttavia certo che la mia Doretta mi proteggerà, affinchè possa fare ancora un po’ di bene per questa collettività davvero e da troppi tradita.
Le suesposte riflessioni del gen. Dalla Chiesa in ordine alla situazione locale della Democrazia Cristiana vanno, evidentemente, interpretate tenendo conto del ruolo dominante assunto dalla corrente Andreottiana all’interno di tale partito a Palermo. Alla luce del quadro probatorio sopra riassunto, può dunque affermarsi con certezza che il gen. Dalla Chiesa individuava nella corrente Andreottiana il gruppo politico che, in Sicilia, presentava le più gravi collusioni con la mafia. Egli, dopo avere inizialmente creduto alla buona fede del sen. Andreotti, ritenendolo responsabile di semplici errori di valutazione ed offrendogli quindi con piena lealtà istituzionale il proprio contributo conoscitivo in merito agli aderenti alla sua corrente in Sicilia, giunse, nel corso della sua permanenza nella carica di Prefetto di Palermo, ad ipotizzare che il medesimo esponente politico facesse “il doppio gioco”.
Questa asserzione, tuttavia, per come è stata riportata dal figlio Fernando, non risulta accompagnata dalla esplicitazione dei motivi che avevano indotto il gen. Dalla Chiesa a formulare il suesposto giudizio.
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